CATTIVE LETTURE – “Sunset Limited”, il “romanzo in forma drammatica” di C. McCarthy
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Misurandosi con Sunset Limited, Tommy Lee Jones si affida completamente alla propria straordinaria fisicità, ma la sua versione (trasmessa di recente dalla HBO) non fa che confermare la problematicità connessa con la trasposizione cinematografica delle opere di McCarthy

Bianco: Lei è un eretico?
Nero: Stai cercando di mettermi nel sacco, professore?
Bianco: No, per niente. È un eretico o no?
Nero: Non più di quanto dovrebbe esserlo chiunque. Anche chi ha una fede grande così. Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande.
Bianco: E che differenza c’è?
Nero: Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste.
Sunset Limited. Prima di cominciare la lettura, viene quasi naturale giocare col fascino evocativo del titolo. Si tratta, in realtà, del nome di un treno, che collega New Orleans a Los Angeles. Ma ancora non lo sappiamo, e la traduzione letterale, che suona più o meno come “tramonto con un limite” o “che si ferma prima del limite”, suggerisce immagini vaghe, atmosfere sospese, quasi il testo trattasse di ombre, sfumature, territori indefiniti, come quell’ora incerta che non è né più giorno ma non è ancora notte. E invece, fin dalle prime battute, la pièce di Cormac McCarthy sembra andare in un’altra direzione, che poco ha a che vedere con le sfumature e i mezzi toni. Un unico ambiente, la stanza di un caseggiato popolare, e due soli personaggi, il Bianco e il Nero, identificati dal colore della pelle; il primo è un professore che ha appena tentato di buttarsi sotto il Sunset Limited, il secondo è un ex galeotto che lo ha fermato e accolto in casa. Da un lato l’intellettuale che ha studiato, meditato, indagato l’anima profonda delle cose, si è insinuato nello strato sotterraneo che muove il mondo, ma questo gli si è svelato per ciò che è, e cioè nudo, insostenibile. Dall’altro il peccatore toccato dalla grazia, l’uomo semplice votato alla salvezza del prossimo che si è scoperto libero nell’accettarsi mero strumento nelle mani di Dio. La prima impressione è, ovviamente, quella di un quadro fin troppo netto e schematico, che contrappone due opposte visioni del mondo come in una partita a scacchi dove la posta in gioco sembra stare in un unico ingombrante interrogativo: perché affannarsi tanto per salvare una vita? A che vale una vita?
Proseguendo nella lettura, ecco che la prospettiva, quasi impercettibilmente, cambia di nuovo. Non perché ci si aspetti una ricomposizione di quella frattura netta, irriducibile. Anzi, più le pagine scorrono e più si è certi che le strade dei due personaggi sono destinate a scorrere parallele senza mai incontrarsi. Ma perché la complessa stratificazione di cui è tessuto il testo emerge in un moltiplicarsi continuo di richiami all’universo letterario dell’autore – e al sostrato filosofico-religioso che lo nutre – tale da spingere a chiedersi, forse in misura maggiore rispetto ad altre opere, qual è il senso reale di ciò che (ci) è avvenuto leggendo.
Certamente c’è la sensazione che l’autore stia operando una scissione tra due componenti del suo vissuto di uomo e scrittore, estremizzandole entrambe. La prima è schiacciata dal pessimismo più radicale, la seconda è illuminata dalla percezione di un significato, di una speranza. La prima non cerca il contatto con altri compagni di viaggio, se il percorso è comunque segnato, vincolato a dei binari prestabiliti (anche la metafora del treno è piuttosto esplicita); la seconda a quel contatto si avvinghia con tutte le sue forze, evitando di concentrarsi sulla destinazione finale. C’è la presenza ingombrante della Bibbia e ci sono tutti i tentativi carichi di simbolismo – a cominciare dall’(ultima) cena, con il pane spezzato e offerto – con cui il nero vorrebbe scuotere il bianco dal suo sonno mortale. C’è la dicotomia continua bianco/nero e luce/tenebre che rimanda alla simbologia del fuoco presente sia ne La strada (2006) che in Non è un paese per vecchi (2005).
A dispetto di una struttura che appare bloccata sulla contrapposizione dialettica dei due protagonisti, il testo suscita continuamente nuove letture, ipotesi e possibilità.

Non è un paese per vecchi e La strada hanno in comune la visione di un mondo che precipita nelle tenebre e nel caos; nel primo lo scenario è un’America assediata dal male che i suoi custodi (lo sceriffo) non riconoscono più, nel secondo quello di un’Apocalisse che ha ridotto la Terra e l’umanità a una distesa di cenere. Il secondo comincia dove finisce il primo: il fuoco del sogno finale dello sceriffo Bell passa dalle mani del padre dell’uomo – che sta andando da qualche parte, non importa dove, per accendere quel fuoco e aspettare il figlio – a quelle del Padre e del Figlio de La strada, primi e ultimi uomini della Terra, portatori di una scintilla di luce superstite che li trattiene a un passo dalla barbarie. Con la sua bicromia enfatizzata e l’insistito riferimento all’atto del vedere (nel buio dell’anima, nelle tenebre dell’ignoranza), Sunset Limited (2006) va a inserirsi tra le due opere, declinando quella stessa simbologia in una chiave più ampia attraverso una riflessione sul valore della conoscenza (sulle vie per ottenerla e sugli strumenti per sostenerla) che tocca anche le dinamiche etiche ed esistenziali dei protagonisti dei due romanzi. C’è nel testo un riferimento abbastanza scoperto all’Ecclesiaste: una delle prime frasi pronunciate dal professore, “Niente di quello che succede significa qualcos’altro”, sembra parafrasare il Vanitas vanitatum del libro dell’Antico Testamento. In entrambi i casi due pensatori indagano il mondo, scorgendo la futilità della fatica umana, e ammettono che la conoscenza, gettando la propria luce cruda sulla realtà, acuisce il dolore, anziché alleviarlo. La conclusione però è diversa: se l’Ecclesiaste non perde la speranza nella salvezza, nella rivelazione (tutto è vanità perché non vi è nulla all’infuori di Dio), il professore vuole affrontare l’illusorietà della vita nel solo modo che conosce, togliendosela.
Anche lo sceriffo Bell è lucido di fronte a quella che chiama “la piega che sta prendendo il mondo”. Malgrado le sue riflessioni sembrino costellate di dubbi, vede le cose molto chiaramente, e quello che vede non gli piace per niente. Pure lui, come il professore, vuole farsi da parte: il rifiuto di accettare l’ineluttabilità di un Male molto più grande di lui (la cui unica logica, il testa o croce del killer, è divenuta puramente casuale) è anche nel suo caso l’ammissione di una sconfitta. Laddove però lo sceriffo rappresenta una visione etica del mondo che resiste alla drastica virata verso la violenza, il professore incarna una prospettiva nichilista che aspira essenzialmente all’atarassia del non essere. E la condivisione di un comune destino con altri esseri umani, che permette all’uno di sopravvivere alla conoscenza (“Se non avessi lei”, dice lo sceriffo riferendosi alla moglie, “non so cosa mi resterebbe. Anzi, sì che lo so. E non mi servirebbe neanche una cassa per mettercelo dentro”), è esattamente ciò che l’altro desidera perdere con la morte: “Nessuna comunità. Mi si scalda il cuore soltanto all’idea. Silenzio. Buio. Solitudine. Pace. E tutto questo, nell’arco di un battito di ciglia”. È per questo che il professore non può che inorridire di fronte alla fede dell’uomo che lo ha tratto in salvo, la fede in una vita dopo la morte. A fronte dell’indagare del professore, che rischiara la realtà solo per rifiutarne l’insensatezza, il nero sposa la follia del mondo, nega, anche provocatoriamente, l’intelligenza del comprendere (“Io, nella testa, non ho manco un pensiero originale. Se non ha dentro la scia del profumo della divinità, allora non mi interessa”), ma sa abbracciare l’irrazionalità vitale di un sentimento atavico: la responsabilità dell’uomo sull’uomo. È ciò che basta a non svuotare di senso la sua missione quotidiana accanto a chi non ha chiesto, né ha alcuna voglia, di essere salvato. È ciò che nutre l’attaccamento del padre de La strada per il frutto del proprio seme: il suo amore incondizionato è sublimemente folle, resiste alla fine della civiltà e della Storia, all’agonia del mondo arido, muto, stremato. È un amore che può anche fare a meno di Dio, perché l’ha interiorizzato in quel legame assoluto e primordiale: “Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il Verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato”. Tutto il resto è cenere.

Solo per brevi momenti il film riesce a uscire dalla stretta gabbia del testo e a far respirare autenticamente i suoi personaggi. Come nel finale, in cui sembra aderire al dolore del nero, alla sua fragilità di credente messo alla prova. L’uomo, rimasto solo, si rivolge al suo Dio. Che non risponde. Non ha risposte. E che lo costringe a chiedersi, dopo tanto faticoso interagire con quell’infelice sconosciuto, quale sia la ragione per sé di quel dialogo. Mentre dietro le sue spalle, non vista, una luce chiarissima emerge oltre i tetti dei palazzi. A suggerire che, forse, il Mistero è sempre stato lì, ma nessuno dei due lo ha (ancora) guardato.
Bianco: […] Un uomo. Una cosa che penzola con le sue espressioni insensate in mezzo a un vuoto ululante. Senza che ci sia alcun significato nella sua vita. Nelle sue parole. Perché dovrei cercare la compagnia di una cosa del genere? Perché?
Nero: Cazzo.
Bianco: Vede cos’è che ha salvato.
Nero: Che ho cercato di salvare. Che sto cercando di salvare. Mettendocela tutta.
Bianco: Già.
Nero: Che è mio fratello.
Bianco: Suo fratello.
Nero: Sì.
Bianco: È per questo che sto qui? In casa sua?
Nero: No. Ma è per questo che ci sto io.