CATTIVE LETTURE – “Ubik”, di Philip K. Dick
.jpg)
“Un visionario tra i ciarlatani”: oggi più che mai la definizione di Stanislaw Lem sembra cogliere le ragioni della popolarità di Philip K. Dick, di cui tanto cinema continua a subire il fascino. È ora la poetica visiva di Michel Gondry, una delle più significative, personali e riconoscibili nel panorama odierno, a confrontarsi, nell’adattamento di Ubik, con l’immaginario dickiano


Come fa Glen Ruciter, direttore di un’agenzia antitelepati, a comunicare con la moglie Ella, intrappolata in un aldilà di semi-vita? Perché Joe Chip scompare dal suo mondo del 1992 per ritrovarsi nell’America degli anni Trenta? Com’è possibile che riceva oscuri messaggi sui muri e sugli specchi dei bagni dal suo capo, quando questi è rimasto ucciso da una bomba esplosa sulla Luna? E cos’è in realtà Ubik, il prezioso spray che ritarda i processi degenerativi? Si può, grazie a esso, condurre un’esistenza apparente, senza rendersi conto che si è morti?
Siamo tutti fantasmi. La merce non ci domina, ci è sopravvissuta, ci ha annullato da un pezzo. È la gratificazione dei sensi, il sostituto del sesso, è ubiqua come la manifestazione del divino. Ubik (1966) è il romanzo più pessimista di Philip K. Dick; una metafora potentissima del legame malato tra gli uomini e gli oggetti – della reificazione umana nella sua forma più estrema – e insieme la messa in discussione dell’adeguatezza del nostro sistema di pensiero meccanicistico e lineare a decifrare la realtà che ci circonda. Joe Chip vive in una casa dove tutto è a pagamento e precipita in una regressione temporale che ha nella mutazione degli oggetti – una cucina a gas cambia in una a carbone, un’auto moderna diventa una Ford del 1929 – la sua rivelazione primaria. I personaggi di Ubik dispongono di una propria teoria della realtà che nel corso della trama viene falsificata, sostituita da una nuova teoria in grado di spiegare l’avvenimento falsificante, ma che è a sua volta insidiata da una diversa consapevolezza che non conduce a un’unica spiegazione ma a una pluralità di soluzioni possibili. Essi sperano sempre, fino all’ultimo, che la loro percezione della realtà sia quella vera. Ecco allora che Ubik, lo spray miracoloso, l’estrema apparenza vendibile, offre loro la verità d’emergenza, perché parla l’unico linguaggio comprensibile nella (non)esistenza di persone il cui apparato percettivo/cognitivo è incapace di liberarsi dalla presenza degli oggetti. Ubik si rivela nel prologo del capitolo finale come il principio creatore dell’Universo, il Logos, il Verbo, parodisticamente incarnato nel logo di un banale prodotto commerciale. Dietro le sembianze dell’Immateriale, si cela l’insidia della vita inorganica; e la sostanza divina non dona la beatitudine della grazia, ma concorre a nascondere una realtà di morte.

Per il lettore, Ubik è un’esperienza che smantella le usuali coordinate interpretative, un testo che scivola fuori da se stesso, diventa metatesto, scorre in direzioni inaspettate dove un evento può risultare incomprensibile all’interno di un dato universo di riferimento ma può trovare senso in un altro; una lettura straniante che invita a non chiedersi quale sia la spiegazione giusta e lascia addosso la sensazione che il nostro abituale sistema cognitivo sia stato sbeffeggiato alla grande. L’idea di cinema di Gondry, che costantemente va ad investire il ruolo dello spettatore per scombussolarne e risvegliarne l’immaginazione, appare in questo senso straordinariamente in sintonia tanto con la scrittura che, in larga misura, con l’immaginario dickiano. Certo l’universo del regista de L’arte del sogno e Be Kind Rewind ha i colori, i suoni, le visioni di una meravigliosa follia onirica; quello di Dick, di un’apocalisse permanente. Ma la circolarità, la struttura a incastri, la stratificazione dei piani rappresentativi e il loro sconfinamento gli uni negli altri, la rielaborazione creativa del procedere non lineare della mente umana, ogni costante insomma dell’opera di Gondry sembra in grado di restituire l’essenza del romanzo e, più in generale, dell’intera produzione dickiana. Che è quella di spargere il dubbio, evocare i “mondi possibili”, confrontarsi con l’ipotesi che il reale come il divino possano essere proiezioni mentali: Now we see through a glass, darkly.
Più forte del suo nichilismo, quello che lo porta a sostenere, ne La svastica sul sole: “Qualsiasi cosa accada, è male al di là di ogni possibilità di paragone. Perché lottare, allora? Perché scegliere? Se tutte le alternative sono uguali… ”, è in Dick questo istinto, profondamente umano, a tentare comunque di spingersi oltre la visione confusa per speculum et in aenigmate, frenando il contagio dell’apparenza e del simulacro. Con l’acutezza dello sguardo che posava sul mondo, e che con eguale lucidità sapeva rivolgere verso se stesso.