Cells At Work!, di Hideki Takeuchi

Trasfigura sapientemente il manga di Shimizu in un film-calderone ricco di idee e formule della migliore serialità pop nipponica, malgrado poi crolli sotto il peso del didascalismo. Dal Far East 2025

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OPEN DAY FILMMAKING & POSTPRODUZIONE: 23 maggio

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BORSE DI STUDIO per LAUREATI DAMS e Università similari

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SPECIALIZZAZIONI: la Biennale Professionale della Scuola Sentieri selvaggi

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Alcune opere dall’afflato apparentemente universale, soprattutto se adattate da manga, necessitano di essere rilette attraverso un’ottica puramente autoctona, se si desidera indagarne le riflessioni proposte, e l’oculatezza con cui un dato film le declina in termini (anche) sociologici. Proprio questo Cells At Work!, tratto dall’omonimo manga di Akane Shimizu, sembra voler dialogare unicamente con il pubblico nipponico, da intendere qui come il vero (e forse unico?) destinatario del racconto, e di tutti i codici che lo compongono: sia per quanto riguarda l’aspetto iconografico e linguistico della narrazione, sia quello prettamente tematico/comunicativo. Tanto che Hideki Takeuchi, dall’alto della sua familiarità con i testi fumettistici del Sol Levante, disegna questo adattamento alla stregua di un enorme calderone narrativo, in cui rientrano molte delle forme e figure che hanno storicamente popolato, almeno dalla metà degli anni Sessanta, le opere della cultura pop giapponese. Sintetizzate in un lungometraggio che tende a procedere per accumulazione.

Guardando apertamente alla serie francese Esplorando il corpo umano, la stessa da cui Shimizu ha tratto ispirazione per il suo manga, il cineasta interpreta questo Cells at Work! come un crocevia di passaggio di molte istanze che hanno attraversato la serialità sci-fi di stampo nipponico, per metterle in connessione con le indagini corporee su cui si fonda il testo di partenza. Proprio come in Tokyo Fist, anche qui si assiste ad un’analisi “interiore” della corporeità dell’individuo: ma a differenza del memorabile racconto tsukamotiano, il travaso tra “dentro” e fuori”, tra ciò che accade all’interno dell’organismo di un essere umano e le sue manifestazioni esterne, non si innerva di connotazioni politiche o antropologiche, ma sembra caricarsi di sfumature più apertamente sociali, che mai abbandonano la cornice “pedagogica” o quella del puro divertissement.

Al centro della storia di Cells at Work! figura, infatti, non un individuo, ma una giovane cellula antropomorfica. Alla pari degli altri globuli rossi, la protagonista (interpretata da Mei Nagano) ha il “solo” compito di trasportare l’ossigeno dai polmoni di un’adolescente di nome Niko al resto dei tessuti corporei. Il suo ruolo, giorno dopo giorno, può risultare perciò monotono, se non addirittura “deprimente” o di poco valore, date le centinaia di milioni di globuli rossi che quotidianamente svolgono le stesse identiche attività che le vengono di volta in volta assegnate. Ma a causa di una malattia ematica contratta dal suo recipiente umano, la cellula inizierà ad interfacciarsi con una pericolosa (e qui “catartica”) invasione patogena, composta da innumerevoli batteri che assumono le forme dei classici mostri tokusatsu (le serie sci-fi nipponiche in stile Kamen Rider) destinati ora a minacciare l’equilibrio biologico dell’intero organismo – e quindi del mondo narrativo in cui prende piede la storia.

Proprio come i racconti tokusatsu, Cells at Work! restituisce ai suoi intrecci, specialmente nella sezione iniziale del racconto, quello spirito meravigliosamente ludico e ridicolo su cui si è così a lungo fondato il successo dei grandi testi pop della serialità fantascientifica nipponica. E più mette in scena lo scontro tra i “vigilanti” (vale a dire i globuli bianchi guidati dal personaggio interpretato dal Takeru Satoh di Real) e le varie forme mostruose assunte dagli agenti patogeni, più il film ritrova nelle immagini quella connessione privilegiata che permette alla narrazione di capitalizzare l’alta fidelizzazione alla base dei linguaggi dei tokusatsu, e di dialogare senza soluzione di continuità con il pubblico giapponese. Un legame qui favorito anche dal percorso identitario della protagonista, che arriverà a prendere atto dell’importanza del suo “microscopico” ruolo all’interno dell’organismo, proprio perché la sua traiettoria richiama apertamente l’identità dei lavoratori comuni del Sol Levante: la cui “periferica” posizione sociale viene validata dalla naturalezza con cui offrono, nel loro piccolo, un contributo di rilievo allo sviluppo di una società non individualista, ma infusa di collettivismo.

Eppure, nonostante questa lettura sociologica, Cells at Work! crolla spesso sotto il peso dei suoi (numerosi) problemi, da ravvisare sia in un eccesso di didascalismo, sia nelle incongruenze a cui va incontro la storia ogni qualvolta si focalizza sulle condizioni di salute della ragazza, trattate secondo le fin troppo omologate convenzioni di tanti film sulla malattia nipponici: a causa di cui l’eclettismo iconografico del racconto, compreso il dinamismo iniziale, viene perlopiù soffocato.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8

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