Cemento armato, gli interventi dei lettori di Sentieriselvaggi
L'intervento "provocazione" del direttore di Sentieri selvaggi, e la nostra recensione totalmente in controtendenza con l'intero panorama critico italiano, sta suscitando diverse reazioni. Da qui cominciamo a dare spazio agli interventi, di lettori, amici, collaboratori e di chi vorrà dire la sua sul film di Marco Martani. Scrivete a redazione@sentieriselvaggi.info
Giuliano Corà, Barbarano (VI)
Michele Soavi ha fatto scuola, ed è evidente che l’esordiente Martani ha visto e ben meditato il suo bellissimo Arrivederci amore, ciao (2006), prima di confezionare questo bel noir, un genere che ancora una volta ci racconta, sul ‘paese reale’, molto più di quanto non ci dicano le favole della buonanotte che Prodi e Veltroni ci ammanniscono ogni giorno. Diego è sui venticinque anni. Vive alla Garbatella, periferia di Roma, assieme alla madre, una donna buona e amorevole. Il padre è sparito quando lui era bambino, misteriosamente. Diego non è cattivo, ma il ‘disordine’ familiare e soprattutto l’ambiente lo hanno segnato. E’ un po’ teppista, ruba, vive di espedienti. Del resto, che altro potrebbe fare, in quella realtà? L’orizzonte che gli si presenta davanti agli occhi ogni giorno è quello: piccola criminalità, violenza, e cemento su cemento, che avvolge e soffoca ogni cosa. Lui comunque tira avanti, ed è anche felice, ma quel cemento di cui nemmeno si accorge ha un padrone: il Primario, un costruttore edile che in realtà è un boss feroce: abusivismo, droga, bande, prostituzione, sono le basi del suo impero, e chi trasgredisce anche di poco paga durissimamente. Paradossalmente, è fatale che, in un contesto simile, le strade del Primario e di Diego si incontrino. Accade quando lui, in una delle sue bravate, spacca a calci lo specchietto della sua Mercedes nuova. La rabbia del boss è incontenibile – “non si tratta solo di uno specchietto: è il mio specchietto della mia macchina nella mia città” – e mette in moto una catena di violenze e di vendette incrociate sanguinosa e senza pietà, che distrugge tutto e tutti intorno a loro. La vicenda di Diego e del primario ha una certa qual inquietante ‘verosimiglianza’, un pericoloso sentore di quotidianità. Chi di noi non ha conosciuto qualche ‘tipo strano’, qualcuno di cui ci si sia detti: ‘Ma come avrà fatto a diventare così ricco? Ma quella casa, quella macchina come se le è comprate?’. Oppure. ‘Con quella faccia, scommetto che sarebbe capace di ammazzarmi per nulla’. Martani ce la mostra, questa quotidianità che ci scorre accanto, e che spesso appunto soltanto intuiamo, fatta di corruzione, di marciume, di violenza spicciola, di disprezzo, di razzismo. Ce la mostra e ce la racconta, con molta semplicità, e senza troppi moralismi. Se non raggiunge la perfezione di Soavi, se nella sceneggiatura sono presenti alcune fragilità – il personaggio del matto e quello dello sfasciacarrozze, per esempio – Cemento armato rimane comunque un gran bel film, duro e sincero. Registi come questo sono boccate d’ossigeno in un cinema italiano che, per il resto, continua a barcamenarsi tra il coté autoreferenzial-intellettuale e quello masturbatorio-sentimentale: speriamo che facciano scuola davvero.