"Chronicle", di Josh Trank


Chronicle
prende le distanze dalla superficialità del found footage odierno, utilizzando questa tecnica per mettere in scena un vero e proprio “diario del desiderio” del suo protagonista. La macchina da presa come estensione fisica e concreta della mente e della volontà, in un racconto di formazione permeato dalla necessità di vivere e scoprire il mondo. Per raccontarlo, e quindi condividerlo.

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Come prima cosa, proviamo a contestualizzare il tutto: Chronicle di Josh Trank arriva in un momento in cui gli handycam movies sembrano essere, insieme al 3D, la nuova gallina dalle uova d’oro degli studios di Hollywood. I numeri parlano da soli: da Cloverfield alla serie di Paranormal Activity, passando per ESP e L’altra faccia del diavolo; senza dimenticare, ovviamente, lo spagnolo REC e il “capostipite” The Blair Witch Project (e quindi anche Cannibal Holocaust di Deodato).
Tutti esempi di found footage dove i concetti di finzione o realtà (presunta tale) guidano letteralmente gli occhi e lo sguardo, subordinando la centralità della messa in scena e trasformando l’ideale stesso di film in qualcosa di astratto e indefinito, a tratti forse rivoluzionario, a tratti forse no.
Nel mezzo, per fortuna, schegge impazzite e furoreggianti di cinema purissimo, come Redacted di De Palma e Diary of the Dead di Romero: gli unici in grado di registrare (è il caso di dirlo) il caos e il sovraccarico multimediale degli ultimi anni, lo scacco cognitivo che trasforma la verità in illusione e il mondo intorno a noi in una materia ribollente di una quantità tale di dati da renderne impossibile un’assimilazione compiuta.
Tutto questo per dire che dietro l’apparenza da home movie canonico, Chronicle ha assimilato bene la lezione dei maestri; e c’è un momento in cui Josh Trank sembra citare proprio Diary of the Dead, quando ad una festa l’occhio della telecamera di Andrew si incrocia con quello di una blogger: se però in Romero la scoperta di un altro punto di vista portava all’azzeramento del controcampo (e quindi, come detto sopra, all’accettazione dell’incomprensibilità del reale), Chronicle non nutre affatto intenzioni di questo tipo. Piuttosto, sfrutta questa tecnica per ridefinire il concetto di spazio, utilizzando la macchina da presa come estensione fisica, concreta e tangibile del pensiero umano e della sua volontà. In questo senso, sì, è un film di supereroi: come se la capacità di creare mondi e visioni tridimensionali nel Lanterna Verde di Martin Campbell si fosse trasformata in film a sé stante, abbattendo qualsiasi limite fisico per proclamare la superiorità dell’immaginazione sul triste mondo degli uomini.

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D’ora in avanti ho deciso che riprenderò tutto”, dice Andrew nella primissima scena, puntando la telecamera davanti allo specchio. E’ da questa dichiarazione di intenti che nasce e si muoverà successivamente tutto il film, nel quale l’acquisizione e la consapevolezza dei superpoteri (muovere oggetti, sconfiggere la forza di gravità) si rivela essere poco più di un MacGuffin, un pretesto assai poco importante da sviscerare o giustificare. Perché il cuore di Chronicle risiede altrove: un racconto di formazione dove l’apertura all’età adulta è data dalla scoperta delle infinite possibilità del mondo e della vita, dal potere della mente che Andrew, puntualmente, mostra allo spettatore filtrandolo attraverso il suo punto di vista. Una sorta di diario del desiderio, che utilizza le immagini per cercare di mettere assieme i pezzi di un’esistenza non sempre felice, cristallizzata in un momento di onnipotenza così grande da dover necessariamente essere condiviso. Ma è un desiderio che porta con sé dolore e rabbia, dal momento che – come nella migliore tradizione del coming of age – in controluce affiorano famiglie allo sbando e abissi di solitudine, fino a sfociare in un climax di altissima tensione e tragedia dove tutta la volontà che permea la pellicola si trasforma in pura aggressività filmica, ripresa da una moltitudine di oggetti diversi (cellulari, telecamere, tablet e quant’altro).
In Chronicle, se si vola è perché si vuole volare. E se si vuole volare, lo si deve mostrare: ecco perché, per una volta, la tecnica dell’home movie è al servizio del film e non viceversa. Perché solo così possiamo comprendere meglio Andrew e le sue scelte, nella sua impossibile ricerca della felicità: e lo ha capito bene Matt, l’amico fraterno, nel bellissimo passaggio di testimone finale, quando gli regalerà almeno un frammento, un’immagine, di quella tranquillità tanto invocata. A caro prezzo.
Come recita la bella tagline originale: boys will be boys.

 

Titolo originale: id.

Regia: Josh Trank

Interpreti: Dane DeHaan, Alex Russell, Michael B. Jordan, Michael Kelly, Anna Wood

Distribuzione: 20th Century Fox

Durata: 84'

Origine: USA/Gran Bretagna, 2012

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