Ci chiamano macchine – “Transformers 3”, di Michael Bay


Lo sguardo di Bay questa volta è decisamente ad altezza uomo (ancora una volta a conferma della natura "carnale" di uno strumento come il 3D), e infatti per gran parte del film i personaggi “in carne e ossa” non fanno che guardare in alto, alzare gli occhi al cielo: dopo l’astrazione estrema del secondo episodio, Transformers 3 cerca di farsi Uomo. La regia di Bay è più concreta e rimanda all'action di lamiera prodotto sotto Bruckheimer, e il risultato è che questo terzo tassello sembra quasi un film. Purtroppo?

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A differenza della Vendetta del Caduto, questo terzo Transformers sembra (purtroppo) quasi un film. La battuta chiave la pronuncia LaBoeuf a Optimus, nel momento in cui il comandante degli Autobot va pentendosi per una scelta che si è rivelata scellerata: “per un istante anche tu sei stato umano”. Ecco, dopo l’astrazione estrema del secondo episodio, Transformers 3 cerca di farsi Uomo (più di una volta nel corso del film, Sentinel Prime rimpiange il passato in cui gli Autobot “erano come dèi… qui sulla Terra ci chiamano macchine”).
E’ forse in questa direzione che va letta l’intuizione, poi non sfruttata a fondo dallo script di Ehren Kruger, di ibridare il personaggio di Shia con componenti meccaniche, un orologio-decepticon che gli si avvinghia al polso e al sistema nervoso, e le armi non sempre funzionanti progettate dal wrecker Einstein. Soprattutto la prima, una trovata con esiti alla Sam Raimi, con LaBoeuf che caracolla e piroetta in aria mentre l’orologio prende controllo del suo corpo e della sua volontà. E sì che quantomeno nella prima parte, in cui la saga tocca nuove vette in questa specie di grossolano slapstick che per Bay e i suoi è l’unica comicità possibile, l’impressione è davvero quella che il film possa seguire la scia dello Spider-man 3 proprio di Raimi, che in chiusura della sua trilogia s’era lanciato in un’opera ultracostosa e folle, liberissima, tutta sopra le righe e senza alcun freno.
Invece, alla stregua di John Turturro costretto da metà film in poi sulla sedia a rotelle, quello che abbiamo è un Michael Bay più leggibile, in assoluto il Bay più concreto di tutta l’epoca Spielberg. In più di un momento della lunga ora finale di guerriglia urbana tra le macerie della Chicago devastata dai Decepticon, anzi, torna alla mente l’immaginario da estetica-Bruckheimer, e l’action di lamiera che Bay confezionava per il suo primo produttore: e il film rimanda in effetti varie volte a quella filmografia, tra Armageddon (di cui la colonna sonora recupera addirittura la Sweet Emotion degli Aerosmith, già presente in quella soundtrack), Pearl Harbor, Tyrese Gibson che sembra uscito da Bad Boys, e una struttura da arcade movie (obiettivo: raggiungere la Trump Tower dove son tenuti prigionieri la bella Rosie Huntington-Whiteley e il malefico “pilastro rosso”) che già innervava lo script di The Rock, forse l’opera di Bay più vicina a questa.
Se c’è un influenza spielberghiana, al di là del sublime prologo in cui Spielberg continua questa sua riscrittura dell’immaginario

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popolare universale attraverso cui è possibile leggere tutta la sua ultima produzione al cinema e in tv, e che qui svaria tra l’allunaggio del 1969 e il disastro di Cernobyl, è nella direzione Guerra dei Mondi che bisogna guardare, una pellicola forse troppo dimenticata dall’ultimo filone di sci-fi d’invasione come Skyline o Battle: Los Angeles.
Ed ecco che il film svuota, annienta e polverizza nella seconda parte ad una ad una tutte le strutture ‘visitate’ seguendo nel primo atto i colloqui di lavoro del frustrato LaBoeuf, che non riesce a convincere nessuno d’aver salvato il Mondo ben due volte: stanzoni d’ufficio coi divisori tra i desk, palazzi riempiti di scrivanie e distributori d’acqua minerale coi boccioni, tutte le location della probabile vita futura di Shia da colletto bianco diventano l’inerme scenografia e la desolata architettura della caccia all’uomo degli spietati Decepticon, mentre il manipolo di protagonisti si nasconde e scappa tra gli androni dissestati e le facciate di vetro dei grattacieli diroccati da usare come vertiginoso scivolo nella fuga. L’unico scenario che Sam Witwicky può accettare è quello che lo vede finalmente riconosciuto in quanto Eroe: ecco dunque l’imperfetta umanità che anima Transformers 3 – stavolta, tutta l’attenzione di Bay è per Sam e il suo pittoresco plotone di marines incazzati in pensione, impegnati a non lasciarci la pelle in giro tra le rovine di Chicago.
Non è un caso se il virtuosismo più mirabolante del film non sia l’ennesimo, stupefacente ralenti di robot che lottano in acrobazie impossibili, quanto un pianosequenza mozzafiato a seguire i soldati di Josh Duhamel che si lanciano tra i grattacieli con le loro tute volanti, volteggiando tra i palazzi per sfuggire alle navicelle Decepticon che li inseguono (di nuovo, l'ibridazione umano-artificiale…). Optimus viene puntualmente chiamato in causa per salvataggi e interventi in extremis, e per il resto del tempo può anche restarsene avvinghiato tra i cavi imbrigliati di due enormi gru (fatta salva l’ovvia resa dei conti finale con i capi dei robot traditori).
Lo sguardo di Bay questa volta è decisamente ad altezza uomo (ancora una volta a conferma della natura "carnale" di uno strumento come il 3D), e infatti per gran parte del film i personaggi “in carne e ossa” non fanno che guardare in alto, alzare gli occhi al cielo: e se, tornando allo Spielberg produttore, Transformers 3 avesse pienamente senso solo se visto strettamente accanto a Super8?

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Transformers: Dark of the Moon
Regia: Michael Bay
Interpreti: Shia LaBeouf, Josh Duhamel, Matthew Marsden, Tyrese Darnell Gibson, Teresa Palmer, Ramon Rodriguez, Kevin Dunn, Isabel Lucas, Rainn Wilson, John Turturro, John Malkovich, Ken Jeong, Patrick Dempsey, Rosie Huntington-Whiteley, Francesc McDormand
Distribuzione: Universal
Durata: 135

Origine: USA, 2011
 

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