CiakPolska 2018 – La riconciliazione, di Maciej Sobieszczański

Un dramma intimo che racconta l’amore, il sesso e la violenza in un campo di lavoro della Slesia di fine guerra. Zgoda è passato nella rassegna di cinema polacco della Casa del Cinema

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Franek si è fatto assumere ad un campo di lavoro presso la città di Zgoda, un tempo campo supplementare di Auschwitz-Birkenau, ora sotto il controllo della polizia segreta comunista che vi tiene rinchiusi tedeschi, slesiani e polacchi accusati di tradimento. Franek è lì per amore. C’è una donna, Anna, che ama e che intende sottrarre alla prigionia. La riconciliazione (Zgoda) di Maciej Sobieszczański è un dramma intimo dove l’ambientazione storica della fine della Seconda Guerra Mondiale, tenuta sullo sfondo, non è altro che un pretesto per parlare d’altro: l’amore, il sesso, la violenza.

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Anna ama un altro uomo, anch’esso deportato nel campo, un amico di Franek. La fotografia su cui Franek indugia ritrae i tre prima della guerra, sorridenti, felici. Nient’altro che il vano ricordo di una serenità che la guerra non rende possibile. Il sesso, l’uso dei corpi da parte degli attori, è rappresentato con spietato realismo dalla macchina da presa. Il regista studia i corpi umani, il loro modo di muoversi, di provare emozioni, pulsioni. L’atto sessuale viene esplorato in ogni sua forma e può essere ora passionale, ora meccanico, ora violento.

Erwin, questo è il nome del terzo, è oppresso dal lavoro forzato al campo. Trova un esiguo conforto solamente quando è in ospedale. Lì può passare il tempo con Anna, anche se è costretto a letto, il volto emaciato, il corpo dolorante, le medicine che mancano. L’unica altra persona che conosce è Franek, però questi si rifiuta di riconoscerlo. Ma laddove Franek non riesce a frenare i suoi impeti di aggressività, nemmeno con la madre, Erwin è ancora capace di dolcezza e di amore, nonostante tutto quello che è costretto a subire.

Spesso la macchina di presa rimane distante dai personaggi, come a non voler intervenire, come a volerli abbandonare al loro destino. Allo stesso tempo, tuttavia, il regista sceglie di usare la macchina a mano, imprecisa, instabile, emotivamente presente nell’azione. La fotografia fredda, desaturata, scura, sembra pesare come un macigno, facendo sentire anche allo spettatore il peso che grava sui protagonisti, il peso del lavoro, della violenza, della malattia. Si respira un’aria opprimente, claustrofobica, che soffoca i personaggi al minimo accenno di speranza.

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