CINEMA – 1a Festa Internazionale di Roma – "The Bridge" di Eric Steel (Extra)

Steel per un anno riprende il Golden Bridge di San Francisco ed assiste a ben 23 suicidi. L'intento è quello di capire e raccontare il disagio e la sofferenza che portano a scelte estreme. Ma il dubbio d'immoralità è più che legittimo

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Ha fatto grande scalpore The Bridge, il documentario di Eric Steel presentato a Roma, dopo aver vinto il Tribeca Film Festival di New York. Tutto è partito da un articolo del "New Yorker", in cui Tad Friend parlava dei frequenti suicidi dal Golden Gate Bridge di San Francisco. Dopo averlo letto, Steel decide di riprendere per un anno intero il ponte da varie angolazioni. Siamo nel 2004. In quell'anno ben ventiquattro persone scelgono il "monumento" simbolo di San Francisco come teatro del loro suicidio. L'occhio di Steel riesce a catturarne 23. Quindi il regista va ad intervistare testimoni, parenti e amici delle vittime e qualche sopravvissuto. Monta il tutto e dà alla luce il suo bel documentario. Perché, diciamolo, il film in sé per sé è ben fatto. Sebbene scelga una struttura convenzionale (alternanza d'immagini e interviste), Steel riesce a dosare sapientemente emotività e distacco, utilizza le musiche pertinenti e suggestive di Alex Heffes, lavora sulla fotografia (col supporto di Peter McCandless) in modo che il ponte appaia, di volta in volta, spettrale e magico, imponente ed "etereo" (quasi un sentiero al paradiso…). Riesce a rappresentare il contrasto tra angoscia e bellezza, che si riflette, come sottolinea una delle intervistate, nella sottile ambiguità del ponte, così romantico eppure così terribile (perché artificiale, finto, costruito). Ma il problema sta a monte. Se l'intento di Steel è quello di capire e raccontare il disagio e la sofferenza che portano a scelte estreme, il risultato non arriva alla lacerante drammaticità di altri film "di finzione" che affrontano (anche marginalmente) il tema del suicidio. Germania anno zero, Mouchette, Il sapore della ciliegia (…): lì si scava nelle profondità remote del dolore. Allora perché The Bridge risulta tanto spiazzante? "Semplicemente" perché si tratta di suicidi reali? Se i Babluani, con L'Héritage, si pongono un problema solo teorico sui limiti del cinema, qui il dubbio della malafede, dell'immoralità è più che concreto. Perché Steel osserva impassibile, con una freddezza premeditata. "Non c'è sadismo, ma rispetto" è stato detto. Ci mancherebbe altro, aggiungiamo. Ma non si può fare a meno di pensare al racconto di uno degli intervistati, che dapprima scatta fotografie a una ragazza in procinto di buttarsi, poi si rende conto che deve far qualcosa per salvarla. Ecco il punto. Steel è ancora lì a scattare le sue fotografie. Forse è coraggio, la capacità di non voltare lo sguardo di fronte alla morte. O forse è morboso voyeurismo. In ogni caso, è un atteggiamento che fa un po' paura.

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