Il cinema è resistenza. Intervista a Mohammad Rasoulof

Buon 25 aprile con l’intervista esclusiva a Mohammad Rasoulof, il cineasta oggi esule che come altri suoi conterranei ha dedicato la sua vita alla lotta contro la repressione del regime iraniano

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In occasione dell’80° anniversario della Festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, pubblichiamo la trascrizione dell’incontro con Mohammad Rasoulof avvenuto presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il regista iraniano, fuggito dal paese lo scorso maggio a seguito dell’ennesima condanna da parte del regime di Teheran, ha affrontato diverse questioni riguardanti la propria terra natìa, a partire dall’ultimo film Il seme del fico sacro, candidato agli Oscar come miglior film internazionale e vincitore del Premio speciale della giuria e del Premio FIPRESCI a Cannes 2024. Di seguito l’intervista:

Sappiamo che è dovuto scappare dal suo Paese e che almeno per un po’ non potrà tornare. Come immagina il suo cinema lontano dall’Iran?

Se volete la verità: mi auguro, spero e vorrei che abbiano luogo importantissimi cambiamenti in Iran a breve in modo da poter tornare.

Adesso che è passato un po’ di tempo dalla sua partenza, si pente della sua scelta?

Andarmene per me aveva parecchio a che fare con il concetto di resistenza, con il rispondere agli atti del regime. Naturalmente mi sono posto la domanda se fosse meglio rimanere in Iran e tornare in prigione oppure trovare un’altra soluzione per mostrare questa mia opposizione. Ho fatto di tutto per rimanere in Iran e l’ultima volta mi hanno ritirato il passaporto e per sette anni non ho potuto lasciare il Paese. Quando ho capito che mi avrebbero arrestato e che avrei passato parecchi anni in prigione, mi sono reso conto che come cineasta in prigione non avrei potuto fare altro che scontare la pena. Quindi ho pensato che l’unica soluzione fosse trovare una via alternativa per continuare a fare il mio lavoro. Lasciare l’Iran per me significa innanzi tutto resistere e oppormi alla censura.

I suoi film sono banditi in Iran, ma ci sono dei modi con cui i suoi connazionali riescono a vederli?

Per quanto riguarda i miei e tutti gli altri film che non vengono proiettati nelle sale iraniane, esiste un mercato nero online. Volendo sono quindi visibili. A parte i film governativi, nei cinema in Iran non viene proiettato nessun altro film. Quindi il rapporto tra la popolazione iraniana appassionata di cinema e il cinema straniero o i prodotti indipendenti iraniani avviene grazie a questo mercato nero.

Nei suoi film capita di vedere uomini che servono un potere che però subiscono e che gli si ritorce contro tanto che ne Il seme del fico sacro il protagonista afferma di non sentirsi più al sicuro in casa sua. È forse ciò che vivono le donne iraniane che ha visto ribellarsi mentre era in carcere?

Le dittature cercano di individuare coloro che possono portare aiuto alla loro causa, quindi assorbirli e in qualche modo manipolarli. La mia esperienza con queste figure è che ognuno si costruiva una giustificazione per il loro ruolo in quelle dinamiche e piano piano il rapporto con la loro umanità veniva tranciata di netto. Per quanto riguarda il movimento delle donne in Iran, si tratta in realtà di un fenomeno con radici antiche e “Donna, vita, libertà” è l’ultimo anello di questa catena. Io personalmente mi sento molto colpito e influenzato da questo movimento, lo ero in passato e ancora di più lo sono allo stato presente. In realtà il movimento per il riscatto femminile in Iran non riguarda lo studio del femminismo, più che altro lavora profondamente sui diritti umani, ed è costituito tanto da donne quanto da uomini. Nella situazione attuale “Donna, vita, libertà” ha creato una crepa enorme tra chi lavora per il governo e la popolazione. Queste ragazze sono un’ispirazione.

Per lei fare cinema è sempre stata un’attività rischiosa e mai facile. Cosa l’ha spinta a intraprendere questa strada?

La necessità di essere liberi è una cosa che riguarda la coscienza di ogni essere umano. Ogni volta che ho dovuto affrontare il discorso della censura, o dell’autocensura, mi sentivo male e la trovavo sempre una condizione disabilitante. Questo non significa che quando fai film indipendenti, girati di nascosto, la censura non ti tocchi. Quando lavori così incontri molte più limitazioni che non girando un film dentro le maglie del regime. Ma esiste, resiste, questa sensazione di essere fedeli a se stessi. Penso che quando un gruppo di persone in Iran tenta di realizzare un film ciascuna di esse si porta addosso questa sensazione. Non riguarda solamente chi fa la regia o chi scrive le sceneggiature, ma tutti coloro che lavorano nel settore. Si tratta di una squadra e al suo interno ognuno vuole essere fedele al principio della libertà di pensiero.

Visto da qui il gruppo dei registi iraniani sembra coeso, ma tra voi vi parlate? Oppure ciascuno, anche in relazione alle difficoltà che conosciamo, lavora un po’ per sé?

Con Panahi abbiamo passato parecchio tempo insieme anche in galera [ride]. Per sei mesi abbiamo vissuto nella stessa stanza e la prigione unisce molto le persone. Ma eravamo amici anche da prima. I registi iraniani fanno parte di un gruppo enorme in cui ognuno la pensa in modo differente. Solo una parte di questa produzione giunge all’estero. Alcuni sono quelli ufficiali, governativi, proiettati nelle sale. Ma c’è una porzione molto importante, che non è chiaro quando troverà spazio sugli schermi internazionali, che riguarda un cinema indipendente comunque poco considerato dal mondo dei festival. Un gruppo di autori che si trovano fisicamente in Iran ma che lavorano su progetti che somigliano più a film stranieri che a prodotti iraniani. Non vengono molto considerati ma a me piacciono. Sto aspettando di vedere quando anche quel genere avrà una sua opportunità.

Nell’ultimo film c’è anche un confronto di generazioni in ambito famigliare. Ha tratto ispirazione da elementi della sua vita?

È cominciato tutto quando ero in prigione e ho incontrato un alto funzionario il quale mi faceva dei discorsi che mi hanno toccato profondamente. Mi disse che odiava se stesso e che era in continuo conflitto con quel che faceva, giungendo persino a pensare al suicidio, e inoltre aveva questa lotta intestina in casa con i figli che lo accusavano e gli chiedevano perché lavorasse per un regime dittatoriale. La prima scintilla è partita lì. Sono ormai 15 anni che ho a che fare con giudici e inquisitori quindi avevo già in testa un’immagine di quel personaggio. Per quanto invece riguarda le ragazze, mi ha spiazzato molto l’attivismo di cui parlavamo prima e quindi l’ispirazione viene da lì. Appena mi hanno liberato ho iniziato a parlare con i giovani e in particolare con le ragazze. Alcune, se non tante, provenivano da famiglie collaborazioniste se non con padri dipendenti governativi. Ho caratterizzato le figlie proprio ricorrendo ai confronti che ho avuto con queste ragazze. La madre è invece la tipica moglie di mezz’età iraniana e a dire la verità mi sono ispirato alla mia zia paterna. È un personaggio che cerca sempre di mantenere un equilibrio all’interno della famiglia, come se stesse camminando su un filo teso. Qualche volta deve andare verso le figlie, altre verso il marito, ma la sua motivazione principale è mantenere l’unità della famiglia e null’altro le importa.

È vero che la madre all’inizio è un’equilibrista, ma poi si avvicina sempre di più alle figlie distaccandosi dal braccio del regime. Il grido di libertà delle nuove generazioni iraniane può fare breccia nella mente dei genitori?

Penso che sia già accaduto. C’è una parte considerevole delle madri iraniane che si rivedono nelle figlie. Queste madri quando erano giovani non avevano né il coraggio né la possibilità di protestare e adesso che vedono le figlie si rispecchiano e le sostengono.

Quali sono le conseguenze per chi ha lavorato a un film come il suo e sceglie di restare?

Le ragazze sono scappate. Anche l’attore che fa il padre da qualche mese ha lasciato il Paese. L’attrice che interpreta la madre vive in Iran e anche alcuni tecnici. C’è un tribunale che deve ancora emettere una sentenza su tre accuse per tutti quanti: istigazione alla prostituzione perché le donne sono senza velo, propaganda contro il regime, e per alcuni il divieto di espatriare. Tutti i collaboratori sono stati giudicati, alcuni assenti, alcuni presenti.

L’utilizzo dei social è una resa di fronte a un cinema di finzione che non basta più o piuttosto la rivendicazione della complessità linguistica del mezzo?

Volevo raccontare la storia di una famiglia i cui equilibri vengono cambiati da un elemento esterno. La domanda era: cosa sta accadendo fuori dalla casa? Siccome stavo realizzando il film di nascosto e non mi avrebbero mai permesso di girare scene come quelle, ho dovuto utilizzare quei video. Ma a prescindere da questo, ho pensato subito che sarebbe stato bello usare quelle immagini perché così potevo mostrare l’influenza e in generale il ruolo che hanno i social nella vita dei giovani. Quando poi ho cominciato a utilizzarli, ho pensato che se anche avessi avuto la possibilità di realizzare quelle scene con attori, non avrebbero mai avuto la potenza che avevano quelle immagini originali.

Nel film c’è un simbolismo intorno alla pistola. Che rapporto c’è con le armi in Iran?

La pistola del film rappresenta il braccio del regime. L’esperienza di vedere le amiche colpite da armi governative attiva la ribellione delle ragazze. Ciò che succede nella famiglia è molto vicino a ciò che accade in generale nella società. In Iran non è facile trovare un’arma. Nella cultura generale, la presenza di un’arma in casa è una cosa davvero stranissima. L’eccezione riguarda le città e i villaggi lungo il confine iraniano. Lì trovi armi nelle case, ma la mia storia è ambientata a Teheran.

Guardando The White Meadows si percepisce una parentela con un certo lirismo satirico di film come Uccellacci e uccellini. A 50 anni dalla sua morte, riconosce un legame con il cinema di Pier Paolo Pasolini e in generale col cinema italiano dell’epoca?

Io e non solo io ma tutto il cinema iraniano è influenzato dal cinema italiano del passato. Quando parliamo di “neorealismo iraniano”, i film italiani vengono subito prima. Ad esempio, La strada in Iran è un film famosissimo e Ladri di biciclette l’hanno visto tutti. Da quando ero bambino ad oggi, il secondo l’avrò visto almeno cinquanta volte. Con Pasolini in Iran hanno qualche problema, ma i cineasti iraniani lo conoscono molto bene. Tutto sommato, credo ci sia un legame fortissimo tra il cinema iraniano e i film neorealisti italiani ma non solo, anche quelli più contemporanei.

In Manuscripts Don’t Burn racconta di un complotto per uccidere gli scrittori. Attualmente c’è un autore, Boualem Sansal, incarcerato in Algeria. Perché gli artisti fanno così paura ai regimi?

Perché gli artisti pongono delle domande mentre i regimi dittatoriali non sono in grado di rispondere alle domande e hanno sempre problemi con qualsiasi cosa tenda a incoraggiare il pensiero critico delle persone. Per tradizione il pensiero umano è espresso in forma scritta, motivo per cui gli scrittori sono i primi a venire perseguitati. Se torniamo indietro di qualche decennio, a quando c’era il regime comunista, vediamo lo stesso tipo di reazione. Non è questione di ideologia, ogni governo dittatoriale agisce nello stesso modo.

Riguardo la politica internazionale, come vede le sorti del mondo nel prossimo futuro? E cosa pensa dell’arresto del co-regista palestinese di No Other Land?

Oggi siamo più consapevoli che la democrazia è sempre in pericolo. Anche nel momento in cui tutti pensano che tutto vada meravigliosamente bene, tutto può cambiare da un momento all’altro. Il nostro lavoro per mantenere la democrazia nel mondo non finirà mai. Dobbiamo sempre darci da fare per mantenere in vita la democrazia. Per quanto riguarda l’arresto del regista palestinese penso sia stato un atto vergognoso e che la comunità internazionale abbia dato una risposta molto bella. E mi riferisco al mondo artistico.

Si trovava nella stessa prigione di Cecilia Sala. Cosa ricorda di quel periodo?

Purtroppo una caratteristica della Repubblica Islamica è prendere ostaggi. Quello di Cecilia Sala è un caso che fortunatamente si è risolto in fretta, anche se penso che anche pochi minuti di quel trattamento possano condizionare la vita di una persona. Non è la prima volta che accade e non sarà l’ultima. In questo momento ci sono due giornalisti francesi in carcere in Iran e per quanto il loro governo si impegni non è ancora riuscito a liberarli. Probabilmente non hanno qualcuno con cui scambiarli…

Progetti futuri?

Sto lavorando a un testo teatrale e le due ragazze dell’ultimo film reciteranno in questo spettacolo. A fine aprile cominceremo le prove e nel mese di giugno andrà in scena a Berlino. Contemporaneamente ho tre progetti cinematografici e devo scegliere quale sviluppare. Ma ciò che desidero che si realizzi il prima possibile è la caduta della Repubblica Islamica così potrò tornare in Iran.


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