"Cinema: femminile, plurale"
La tesi è che assistiamo a una riappropriazione da parte di un contingente femminile non più relegato nella raffigurazione meccanica di un ruolo autopunitivo, represso e propulsore di morte, contrapposto a un mondo maschile antagonista, ma solidale
Di Paola Casella
Edizioni Le Mani
Finito di stampare nel mese di febbraio 2010
Pag. 104 – 14,00 euro
Il testo racconta, attraverso le interpretazioni di grandi attrici e il nascere di grandi personaggi, le spie e i sintomi di un'evoluzione nella rappresentazione cinematografica della figura femminile, lungo i primi 10 anni del nuovo millennio. La tesi di fondo è che assistiamo a una riappropriazione, almeno sul grande schermo, da parte di un contingente femminile non più relegato nella raffigurazione meccanica di un ruolo autopunitivo, represso e propulsore di morte, contrapposto a un mondo maschile antagonista o carceriere, ma solidale, propositivo e non di rado investito della missione di guida e sacerdozio verso una società più umana. Si scrive con grande amore e attenzione delle che meglio hanno incarnato, fino all'inizio del 2000, una forte istanza punitiva nei confronti del proprio sesso, spesso ai confini con la follia.
Julianne Moore, soffocata, ma alla ricerca di risposte (Safe e Lontano dal Paradiso di Todd Haynes, 1995 e 2000, The Hours di
Stephen Daldry nel 2002), ma soprattutto Isabelle Huppert, pelle trasparente e occhi sovrumani, diabolica cioccolataia borghese per Chabrol nel 2000 (per lui era già stata l'essenza stessa del male ne Il buio nella mente), chiamata a dare un volto e un corpo ne La Pianista di Haneke (2001) al masochismo ironico dello splendido romanzo di Elfriede Jelinek, destinata a incarnare ora come figlia, come in questo caso, ora come madre o matrigna delle fiabe (ancora in Grazie per la cioccolata, nel batailliano Ma mère di Christophe Honoré, 2003, in Proprietà privata di Joachim Lafosse, 2006) le sfumature di un rapporto di sangue che per tutto il primo decennio del ventunesimo secolo resta inteso come prima causa di frustrazione femminile e di crudeltà subita o inflitta. È con la Gabrielle di Patrice Chereau (2005), qualcosa di più di una Madame Bovary (sempre la Huppert per Chabrol, anni prima…) che si fanno strada le prime avvisaglie di uno «“scollinamento” verso una tipologia femminile differente: controversa, spesso sgradevole, ma non così nichilisticamente autodistruttiva e distruttiva della propria progenia, ovvero del futuro del mondo» (p. 17). La Casella è attenta a precisare come non si tratti di una mera scalata alla positività in termini di giudizio di valore, specificando
Un intero capitolo è dedicato alle eroine di Lars Von Trier: la Casella analizza con acume il percorso del regista, cercando possibili connessioni con quello di Michael Haneke e rifiuta, intelligentemente, di restare ferma alle accuse di misoginia, spiegando come al di là di pregi e difetti del suo cinema, Von Trier sia unico a «rappresentare la paura atavica del maschile a confrontarsi con il femminile nella sua complessità, arrivando a punire simbolicamente, attraverso i suoi film, l'altra metà del cielo». (p. 29) Da Le onde del destino a Dogville e Manderlay per culminare in Antichrist, il leitmotiv che viene fuori è quello, metaforico, di una programmatica «umiliazione rituale di un personaggio femminile “a garanzia” di un ordine sociale maschile» (p. 37), rituale officiato, paradigmaticamente, anche dalle stesse appartenenti al sesso femminile, come mostra efficacemente Diario di uno scandalo di Richard Eyre (2006). Altra testimone di un progressivo cambiamento nella raffigurazione della donna al cinema è per eccellenza la Alice di Eyes Wide Shut (1999) incredibile lascito (profetico) di Kubrick e testo definitivo sul rapporto tra i sessi. Ma lungo tutto l'ultimo percorso di Nicole Kidman per la Casella si riscontrano tracce di una figura femminile pronta ad assumere un punto di vista privilegiato per la visione: in due ritratti, più o meno riusciti – il testo non ha lo scopo di dare giudizi – che vedevano certamente oltre – Virginia Woolf in The Hours e Diane Arbus in Fur (2006) – lo sguardo consapevole, ma anche la visione in senso proprio, fino al delirio: The Others (2001).
Ecco comparire delle “veggenti” in grado di rifondare un equilibrio sociale: Samantha Morton, precog di Minority Report (2002), ancora la Moore protagonista di Cecità di Meirelles (2008), ma soprattutto le eroine di Shyamalan. In un autore che «ha costruito tutta la sua poetica sull'incapacità degli uomini di leggere correttamente la realtà basandosi sul solo sguardo (vedi Il sesto senso e Unbreakable)» (p.45) la Casella segnala giustamente come siano sempre le donne a “vedere” oltre il reale e a far da guida agli uomini: Bryce Dallas Howard, letteralmente cieca che vede, in The Village (2004) e creatura da un altro mondo, guida verso la verità in Lady in the Water (2006); ma anche la speranza affidata a Zoeey Deschanel in E venne il giorno.
Un altro capitolo, sfidando il clichè del regista omosessuale che racconta meglio le donne, fa il punto sul cinema di Ferzan Opzetek e soprattutto sull'universo di Pedro Almodóvar, vera e propria dichiarazione d'amore ripetuta al femminile «in generale, anche a quello espresso dagli uomini» (p. 55). Segue una digressione su predatrici, sirene e femme fatale, dagli esempi alti (Cronenberg, Chabrol) a quelli ahimè, stereotipati (Muccino). Le eroine di Almodóvar, ma anche la Beatrix di Kill Bill (unico appunto al testo, forse sarebbe stato necessario dedicare più spazio al crescente interesse con cui Tarantino sviluppa la figura femminile nel suo cinema, specie in Death Proof e nell'ultimo Inglorious Bastards) e l'ostetrica di Eastern promises sono le protagoniste anche del capitolo dedicato al materno inarrestabile, una sorta di onnipotenza fertile (non solo di figli in carne ossa, ma anche di idee, speranze, iniziativa, imprese).
Chiudono il testo due sezioni dedicata ad ancora altre due sfumature del materno: l'eroismo spinto fino ai limiti di madri in lotta, che si trovano a scontrarsi con un universo retto da regole tutte maschili – Il segreto di Esma (2006) Changeling (2008) Vincere (2009) – e soprattutto, nell'interessante capitolo che legge due film dei fratelli Dardenne, L'Enfant(2005) e Il matrimonio di Lorna (2008) – ovvero il silenzio di Lorna, qualcosa di inespresso, ma presente, «la maternità come espressione concreta di un desiderio femminile profondo e talvolta autonegato, di un'esigenza personale sopita ma alla fine insopprimibile» (p.89) che non è necessariamente quella di un figlio proprio, ma il bisogno di affermare una capacità di pietas e di cura, qualcosa che non ha nulla a che fare con la ipotetica "nuova voglia di essere madre" urlata dai pancioni patinati delle star sulle riviste, qualcosa che ha più a che fare con le sponde tracimanti e difficili dell'amore in senso universale, dell' empatia, e in tutte le sue manifestazioni (Juno, nel 2007, la Daisy di Benjamin Button, 2008) che con il pessimo ruolo imposto di mera incubatrice in cui si è tentato in tante società e tante epoche di segregare l'esperienza della maternità.
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