CINEMA. Festa Internazionale di Roma. "Heima" di Daniel De Blois (Extra)

Questo velleitario documentario sul gruppo islandese dei Sigur Ros potrebbe in fondo risultare emblematico dello spirito tutto veltroniano dell'evento: perfetto esempio di marketing giovanilista applicato ad un prodotto sostanzialmente mediocre eppure dotato della giusta dose di appeal intellettuale. Tracce di esotismo minimal, aria di fighetteria alternativa.

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Astutamente incastrato nella complessiva riflessione su localismi e globalità – uno dei temi portanti (?) della seconda edizione della Festa del cinema di Roma – questo velleitario documentario sul gruppo islandese potrebbe in fondo risultare emblematico dello spirito tutto veltroniano dell'evento. Un perfetto esempio di marketing giovanilista applicato ad un prodotto sostanzialmente mediocre eppure dotato della giusta dose di appeal intellettuale: tracce di esotismo minimal, quell'aria di fighetteria alternativa.
Il film è un sofisticato resoconto di una serie ravvicinata di concerti tenuti gratuitamente e inaspettatamente dai Sigur Ros in Islanda, a casa loro, a tour mondiale concluso.
L'idea della band e di Dean De Blois, regista del film e fan di vecchia data del gruppo, seppur non esattamente rivoluzionaria, non sarebbe neanche troppo scontata a dir la verità: tirar fuori dalle sonorità dilatate della loro musica – da quei brani costruiti su un 'idea già così palesemente
spaziale
del rapporto tra suoni – delle immagini e delle forme che la macchina da presa possa finalmente circoscrivere, definire, sottraendole alle ambiguità delle suggestioni personali e trasformandole in inquadratura e, dunque, in visione oggettivata. Se non fosse però che la parte realmente inventiva dell'esperimento finisce qui: De Blois, con una pigrizia visiva quasi letale ed il pretesto tematico del "ritorno a casa", infila quelle stesse suggestioni personali nel solito paesaggio artico, in un lungo, oleografico, elenco di immagini di ghiacchiai, laghi gelidi e casette innevate.
A peggiorare le cose ci si mette anche un'ingenua e spasmodica ricerca della
bella inquadratura sul bel
paesaggio, il gioco artificioso delle luci sempre fredde e sempre morbide, le continue carrellate sui volti di un pubblico rapito dalle note, un'insistenza incomprensibile sul campo lungo immobile che dà all'intero lavoro un'aria da folkloristico album fotografico.
Buono per i fan, incomprensibile in un qualsivoglia festival del Cinema perché non ne ha bisogno, nettamente in ritardo sui tempi che corrono: tra i giovani dell'Auditorium qualcuno forse deve aver pensato che a trasformare la musica in immagine – ma
trasformarla
sul serio, nelle dinamiche geometrie dello spazio digitale – ci sono già i lettori multimediali dentro i pc.

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