CINEMAFRICA – "Abuna Messias"


Edito dalla San Paolo, è ora disponibile nel mercato homevideo uno dei titoli più tipici e per così dire rappresentativi del filone coloniale italiano

 

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di Leonardo De Franceschi

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E' disponibile in DVD, edito dalla San Paolo, uno dei titoli più tipici e per così dire rappresentativi del filone coloniale. Abuna messias, girato nel 1939 dal cairota Goffredo Alessandrini, è un biopic romanzato del cardinale Guglielmo Massaia, missionario in Etiopia dal 1846 al 1879: il film ricostruisce in particolare il secondo dei tre soggiorni, terminando con la sua cacciata da parte del re Johannes IV. Terribilmente datato nell’impianto della messinscena, profondamente discutibile nei modi di rappresentazione del paesaggio politico e antropico locale, il film può essere utilmente rivisto e reintepretato in chiave postcoloniale, sulla base delle puntuali scelte compiute dai suoi produttori e autori, ma anche come controprova di un oggettivo sostegno offerto dalla chiesa alla campagna d’Etiopia, sul piano della politica culturale.

Nel film, scritto da Alessandrini con la partecipazione tra gli altri di Vittorio Cottafavi, Massaia (Camillo Pilotto) – chiamato familiarmente Abuna Messias dalle popolazioni locali – torna in Etiopia preceduto dalla sua fama ma accompagnato solo dall’anziano padre Leone (Roberto Pasetti). Turbato dal passaggio di una carovana di schiavi, ne riscatta uno ridotto a malpartito, Morka (l’indigeno Michael), che rimane al suo servizio, pagandolo con una medaglia datagli da Cavour. L’arrivo di Massaia preoccupa a tal punto il capo della chiesa copta locale, Abuna Atanasio (Mario Ferrari, in blackface) da spingerlo a pagare il mediatore di schiavi musulmano Abu Beker (Abd El Uad, doppiato da Mario Besesti) perché liquidi con i suoi sgherri il missionario. Sennonché nel frattempo sopraggiunge una scorta inviatagli dal re dello Scioà Menelik (Enrico Gori, anche lui in blackface), che lo riceve con grandi onori a corte, accogliendolo come suo consigliere.

Fra le molte pretendenti al titolo di regina, c’è l’altera principessa galla Alem (Berchè Zaitù Taclè, doppiata da Giovanna Scotto). La donna spera proprio nell’intercessione del missionario per farsi sposare ma il missionario si mostra diplomaticamente comprensivo nei confronti del volubile re. Prima di lasciarlo partire in missione, in un appezzamento che gli mette a disposizione, Menelik chiede esplicitamente a Massaia una mediazione con il governo italiano perché intervenga militarmente a suo favore («Senza l’aiuto della vostra civiltà non potrò mai arrivare a farne degli uomini»), ma il prete nicchia, dicendogli che ad opporsi è soprattutto un parlamento diviso («se dipendesse da lui la cosa sarebbe già avvenuta») e annunciando tuttavia una promettente spedizione geografica. Nel territorio assegnatogli, Massaia scopre un villaggio decimato dal vaiolo, allontana il santone locale e organizza su due piedi un ospedale.

Mentre Massaia conquista la fiducia degli indigeni, risanando gli abitanti del villaggio, Abuna Attanasio moltiplica gli sforzi per contrastare l’influenza, arrivando a convocare un’imponente adunata di fedeli per scomunicare i seguaci di Massaia. Dopo aver tentato inutilmente di screditarlo, agli occhi di Menelik, si rivolge direttamente al negus Johannes IV (Ippolito Silvestri), sobillandolo contro Menelik, accusato di mirare a usare l’aiuto degli europei per impadronirsi del suo trono, ed esortandolo a schiacciarne la ribellione e a scacciare il missionario dallo Scioa. Mentre Menelik fonda attorno al villaggio risanato la città di Addis Abeba (nuovo fiore in amarico), sopraggiunge un messaggero di Johannes IV ma Menelik si rifiuta di accettare le sue imposizioni e si va alla guerra. Grazie all’appoggio dei cavalieri galla, Johannes si assicura la supremazia in campo. Inutilmente Massaia propone sia a Menelik che a Johannes di farsi da parte per impedire la guerra. Sconfitto, Menelik è costretto ad accettare le condizioni, espellendo Massaia e promettendo di osteggiarne la religione. Il vecchio Abuna Messias lascia il paese ma si lascia dietro il giovane Morka, che nel frattempo ha ordinato sacerdote, per continuare la sua missione.

Sul piano dei modi di espressione, in Abuna messias, Alessandrini conferma una padronanza registica che pochi altri registi del Ventennio possedevano. Lo si evidenzia soprattutto nella gestione delle numerose scene di massa, all’aperto e ad alto impatto spettacolare, girate sul posto con l’ausilio di migliaia di comparse: dall’adunata dei fedeli copti alla corte di Johannes alla guerra fra i due eserciti. Nelle scene d’interni, domina invece una cinepresa più mobile ed elegante, e se la fotografia di Aldo Tonti (che tre anni dopo curerà le luci di Ossessione) assume tonalità contrastate ed espressive, la cura del décor richiama un gusto del dettaglio tipico dei film esotico-coloniali (penso per esempio alla ricorrenza di gatti selvatici nella reggia di Menelik, elemento figurativo che richiama alla memoria la corte di Sofonisba in Cabiria e quella di Antinea in L’Atlantide di Feyder). Ma a gravare sull’insieme, di questo come di altri pseudokolossal coloniali come Scipione l’africano c’è la matrice estetica magniloquente e stantia del filone storico-epico.

Nello stesso immaginario possiamo inquadrare i modi di rappresentazione del contesto, quello di un paese pre-coloniale che, come tale, appare diviso tra leader locali litigiosi e ambiziosi, necessitando l’intervento unificante e pacificatore di una guida esterna. Colpisce, nello specifico, in un film prodotto da una società vicina al Vaticano, diretta da Don Alberione, l’identificazione del ruolo simbolico di antagonista non nel potere politico ma in quello religioso, della chiesa copta, incarnata dall’infido e potente Abuna Attanasio, la cui perfidia morale è sottolineata oltremodo da un lieve handicap (ha un occhio ricoperto da una benda). Registrata la pratica, allora di uso comune, di usare per i ruoli principali di personaggi neri attori bianchi in blackface (facendoli recitare in italiano, ça va sans dire), vanno riconosciute alcune aperture di segno documentale che contrastano con la visione dominante, di segno imperialista e razzista. Se l’indigeno buono Morka, come da stereotipo del genere, in tutto il film non fa che annuire ai discorsi di Massaia, senza pronunciare una sola parola, non così la principessa Alem, una sorta di femme fatale in salsa zighinì, che occupa una zona consistente dell’intreccio, ritagliandosi un ruolo di donna fiera e risoluta, sia pur filtrato dalla griglia ideologica e sessista d’insieme.

Ma a rimanere impressa è, dicevamo, la componente indirettamente documentale dello sguardo, inclusivo, di Alessandrini, che ingloba nella messinscena brani di cerimonie religiose e danze e musiche tradizionali (come la sessione di ballo iskista con accompagnamento di violini masenko che segue il banchetto di Menelik in onore di Massaia) e persino una scena dialogata in amarico (con l’Abuna Attanasio che risponde in italiano agli altri capi religiosi, che si esprimono in lingua). Passaggi che non inficiano né indeboliscono la portata ideologica d’insieme, con un discorso che insiste nel giustificare retrospettivamente – il film è ambientato negli anni antecedenti all’occupazione del porto di Massaua del 1884 – l’espansione coloniale italiana in Africa orientale. Colpisce, ma qui la questione si fa spinosa e complessa, come il primo film finanziato dalla società delle Paoline – quella di don Giacomo Alberione, qui Romana Editrice Film, più avanti San Paolo –, destinata ad altri exploit (come il primo film a colori, Mater dei, nel 1950) sia un film così scopertamente compromesso con il regime e convintamente sostenitore delle sue imprese coloniali.

In occasione del bicentenario della morte di Massaia, avvenuta nel 2009, si sono tenute numerose celebrazioni in tutta Italia: in varie occasioni, per esempio al Museo del Cinema di Torino, è stata presentata la copia restaurata dalla Cineteca Nazionale del film di Alessandrini. È davvero poco comprensibile, da parte della San Paolo, la scelta di uscire con questa edizione, fuori tempo massimo per le celebrazioni in questione (ma questo poco ci tocca), e soprattutto con una copia che porta tutto il peso dei suoi anni, da un master in condizioni mediocri, pieno di graffi, spuntinature e salti anche nel sonoro. L’edizione, inoltre, è priva di extra. L’importanza dell’uscita rimane invece notevole per gli storici che lavorano con i nuovi media e, più in generale, per quanti vogliono fare i conti con il rimosso passato coloniale italiano (e l’azione di sponda offerta al fascismo dal Vaticano, anche su questo versante).

[articolo a cura di
www.cinemafrica.org]

 

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