Regia, Ripresa, Montaggio, Sceneggiatura, Recitazione: I corsi primaverili della Scuola Sentieri selvaggi
CinemAsia – Ishii e Nakamura, due stravaganti autori giapponesi
Ishii Yuya costruisce lo snodo drammatico di The Great Passage intorno alla realizzazione di un monumentale dizionario di nuovi termini giapponesi. Nakamura Yoshihiro in Fruits of Faith segue l'inabissamento di un uomo deciso a coltivare mele senza pesticidi chimici. Film dai soggetti apparentemente impossibili. A cura di www.asiaexpress.it
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Ishii Yuya e Nakamura Yoshihiro sono due registi molto diversi tra loro, accomunati però da una simile attrazione per storie improbabili. Il primo è fautore di una comicità sottile e fuori registro che parte da personaggi strampalati per raccontare il Giappone quotidiano. Il secondo è più inserito in schemi di genere e in un'ottica mainstream, ma in ogni film sembra partire alla ricerca di una nuova visuale, in controtempo rispetto al film precedente. Per questo, pur nelle diversità macroscopiche, riescono a rappresentare la poliedricità dell'industria cinematografica nipponica, sempre pronta a mettersi in gioco, spesso anche a discapito della commerciabilità delle idee ritratte. Le loro opere più recenti, uscite da pochissimo in patria, compendiano questa particolarità di sguardo.
The Great Passage, tratto da un romanzo di Miura Shion, racconta il paziente lavoro di un gruppo di editor di una grande casa editrice alle prese con la compilazione di un dizionario innovativo, che comprenda slang giovanile ed espressioni entrate di recente in uso rispetto ai vocabolari tradizionali. Un lavoro lungo oltre dieci anni, che vede un ricambio generazionale e segue l'evoluzione nei rapporti dei partecipanti all'impresa. Uno di quei temi che spesso funzionano su carta – con una riflessione sul potere delle parole, i loro segreti nell'intessere relazioni e descrivere emozioni – ma che tragicamente, altrettanto spesso, naufragano nella versione cinematografica. Ishii Yuya riesce però a far crescere lentamente l'attesa, senza snaturare il senso della storia, partendo da personaggi emarginati nella loro stessa casa editrice (compilare un dizionario dalle fondamenta è un lavoro noioso, ripetitivo, che porta via molto tempo ma non porta commisurati guadagni), che grazie all'osservazione del mondo circostante, in cerca di nuove parole, costruiscono un legame sempre più significante tra loro. Il protagonista è Mitsuya Majime, un Matsuda Ryuhei controllato e dimesso, ragazzo taciturno e timido che entra nel team quasi per caso, ma viene coinvolto dall'impresa, gancio per uscire dal suo solipsismo, fino a trovare le parole per dichiararsi alla nipote della tenutaria della casa in cui abita.
Rispetto al passato – con storie sghembe e sincopate come Sawako Decides (2010) e Mitsuko Delivers (2011), o più apertamente surreali come Bare-assed Japan (2007) – Ishii oscura il suo sguardo ironico, dando priorità alla minuziosa capacità descrittiva, quella che tiene le fila nei lunghi anni necessari a completare l'opera. Naturalmente The Great Passage non è film per tutti, richiede una certa dedizione nella visione, ma è capace di innervare con acume un discorso ampio sulla necessità dei sacrifici per raggiungere gli obiettivi a uno più ristretto sulla bellezza del lasciarsi andare a esprimere le proprie emozioni – contestualmente alla situazione e sempre secondo la propria indole. Un film smaccatamente giapponese sia nella società che descrive, sia nel registro formale delle relazioni messe in scena, ma che nonostante questa adesione al modello tradizionale è in grado di ritagliare uno spaccato inusuale, nascosto agli occhi – proprio come gli editor di un dizionario, oggetto indispensabile eppure sostanzialmente invisibili, nella percezione comune.
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Fruits of Faith, prima dell'uscita noto come Miracle Apples (traduzione letterale dell'originale giapponeseKiseki no ringo), ha la struttura più collaudata del biopic, che prende un tema attualmente sentito come l'attenzione per il cibo che mangiamo, evoluzione di un sentire ecologista, e punta a trasformarlo in fonte di ispirazione per gli spettatori. Rimanendo sui toni trasognati della commedia venata di tragico, racconta di Kimura Akinori, ostinato ragazzo nato a fine anni '40 che dalla iniziale passione per tutto ciò che è tecnologico (ama smontare e rimontare orologi, motorni e qualsiasi cosa meccanica, segno del boom economico degli anni '60), si ritrova per un beffardo caso del destino a dover seguire l'odiata filiera della coltivazione delle mele, vanto della sua zona natale. Kimura comprende lentamente quanto il biologico sia più complicato (e potenzialmente affascinante) rispetto al meccanico, e viene trafitto dall'ossessione di smettere di utilizzare pesticidi chimici. All'inizio viene visto dagli altri coltivatori come una scheggia impazzita, un esempio di eccentrico da coccolare e compatire, ma man mano che i suoi insuccessi diventano più evidenti, anno dopo anno, si trasforma in un fuori casta, cui raramente viene rivolta la parola. Tra rivincita di un emarginato e sfogo per una magnifica ossessione, Nakamura Yoshihiro non lesina le punte retoriche, specialmente nel prolungato happy ending, fin oltre il parossismo, ma nel complesso il suo film è tanto trasversale da risultare insondabilmente attraente. Il tono è quello della favola, ma nella semplicità dell'intreccio (idea sconveniente ma allettante, prolungati fallimenti, inaspettata gloria) si nasconde una riflessione amara sulla solitudine degli innovatori, e su quanto di sofferenza ci sia nel loro ritrovarsi soli eppure convinti di trovarsi nel giusto. In questo caso la gogna sociale è allentata dai comprimari, la moglie di Kimura e suo suocero, che inaspettatamente gli concede di continuare a sperimentare nonostante la bancarotta si avvicini. Una rete ristretta familiare da cui Kimura può trarre forza, senza perdersi.
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Sorto dal coacervo j-horror (Lizard Baby, del 2004, The Booth, del 2005), Nakamura è sempre stato piuttosto altalenante: da un lato ci sono grandi successi di pubblico, ma resa risibile, sull'orlo dell'irritante, comeGolden Slumber (2010),The Glorious Team Batista(2008) o il più vivace Fish Story(2009); dall'altro film più personali e fuori dall'ordinario come See You Tomorrow, Everyone(2013), Potechi(2012) o The Foreign Duck, the Native Duck and God(2007), che partendo da premesse off riescono a costruire il loro senso intorno a personaggi liminali. In questo senso Fruits of Faith prosegue nel raccontare la marginalità come ricchezza, inserita però in un discorso ecologista che rischia di diventare didascalico – lo stesso rischio corso dal Gus Van Sant diPromised Land (2012), pur in altra chiave. Nakamura però aggira la questione mantenendo un tono incantato (la presentazione del protagonista da piccolo con voice over, la risoluzione della malattia della figlia), che permette di sondare il tema senza paura di eccedere: in fondo è proprio dallo stupore della scoperta che nasce la magia di un processo prima impensabile come la coltivazione biologica.
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