CineMondo – "Alsateh", di Kamal Aljafari
Nessuna traccia di retorica melodrammatica, né di denuncia televisivo-giornalistica: Alsateh è un documentario atipico, che sembra voler fare a meno a tutti i costi della narrazione per raccontare una terra e la sua identità perduta. Per questo il film di Kamal Aljafari è destabilizzante: in fondo ci si aspetta sempre una storia compiuta, un caso particolare che serva a spiegare tutta l’illogica situazione. Non è così, forse perché semplicemente è impossibile spiegare
La storia che cerca di ripercorrere è la storia della sua famiglia, delle partenze, degli esodi forzati, delle morti. Cerca la narrativa dove non c’è, e non fa niente per sforzarsi di crearla. Non c’è infatti traccia di narrazione, non c’è nemmeno un vero tentativo di recupero del passato.
Frammentato come le strade polverose che attraversa, Alsateh è un documentario atipico, che usa la forma televisiva in modo anti-narrativo e anti-spettacolare. Non è un’inchiesta giornalistica, non è un atto di denuncia. Non è nemmeno una dichiarazione politica. Difficile da definire, a tratti scostante per l’assoluta mancanza di coerenza consequenziale. Ci sono volti, storie spezzate, che si sfiorano l’una con l’altra ma non si toccano mai. Ci sono muri paradossali, ancora in costruzione. Ci sono ricordi di prigionia, e amici fuggiti in Libano e in Siria. Famiglie che restano all’improvviso in case distrutte dai bulldozer.
Per questo il film di Kamal Aljafari è destabilizzante: in fondo ci si aspetta sempre una storia compiuta, un caso particolare che serva a spiegare tutta l’illogica situazione. Non è così, forse perché semplicemente è impossibile spiegare.
Il passato è la terra straniera di Aljafari, ed è il presente dell’identità palestinese. Alsateh è il tentativo coraggioso di raccontare una terra sommersa e la sua identità incredula e vagante con un linguaggio coraggiosamente non accattivante.