Città d’asfalto, di Jean-Stéphane Sauvaire
Il film con Tye Sheridan, Sean Penn, Mike Tyson e Katherine Waterston aggiorna Scorsese ai nostri tempi di cinema visual, ma c’è qualcosa che rimane addosso sotto la pelle.

L’assalto sensoriale portato avanti da Jean-Stéphane Sauvaire si configura innanzitutto come tour de force sonico: Città d’asfalto è un film che procede come estenuante messa alla prova uditiva dello spettatore, un impatto sonoro (merito del miracoloso Ken Yasumoto, abituale collaboratore di Gaspar Noé) che urla come le sirene delle ambulanze e insieme come le grida disperate dei suoi personaggi, per stagliarsi al di sopra dell’incessante partitura circolare per archi di Nicolas Becker (quello di Sound of Metal), che fascia senza sosta il movimento perpetuo delle notti di questi paramedici, sorta di nuova stagione di quelli tenuti a battesimo dal Martin Scorsese di Al di là della vita. Sì, è vero, siamo già stati da queste parti, ma d’altronde se c’è una cosa che abbiamo oramai capito è che questo cinema, anche questo cinema, non è una via d’uscita.
E non può esserlo: Sauvaire, classe 1968 e una carriera nel cinema francese “videoclippato” di genere, riparte dalla New York insonne dei Safdie (a proposito di dispositivi costruiti sugli impulsi sonori…), e procede per accumulo, braccando ossessivamente i volti dei suoi “angeli della strada”, Tye Sheridan e Sean Penn, nel tentativo impossibile di purificare i loro corpi e le loro anime dalla violenza e dal peccato dei marciapiedi di Brooklyn che i due si prendono sulle spalle per traghettarlo verso una salvezza solo apparente, momentanea, intangibile. E allora ogni volume sulla scena assume una matericità allucinata, una nebulosità impalpabile, anche le sequenze di sesso, le membra nude, un intero film dalle palpebre socchiuse, che spalanca improvvisamente poi gli occhi al cospetto dell’orrore, del sangue, dell’osceno, dell’insostenibile.
Rimanere tramortiti è il minimo: nell’indifferenza del flusso narcotizzante di stimolazioni in cui siamo piombati, alcune immagini possono ancora (incredibile!) restare impresse, stagliarsi sulla retina per riapparire in quell’istante traumatico di quando spegniamo la luce e restiamo al buio, prima di ambientarci nell’oscurità, come fanno i camera car degli end credits. Chi li ha evocati questi demoni? Un’apparizione è sempre una chiamata all’azione, ed è esattamente quello che accade ai protagonisti, per i quali ad un certo punto tutto questo diventa insostenibile, e allora si fottano i protocolli e le procedure, le decisioni giuste non hanno mai avuto a che fare davvero con il buon senso (“sono fiero di te”, dirà il personaggio più demoniaco di tutti, quello di Michael Pitt). Se la traccia è innegabilmente Scorsese, qui la redenzione è però ancora più lontana, la prossimità con l’altro non è realmente possibile neanche con l’inganno di una sovrimpressione. Tra i suoni più forti di un film a volume altissimo ci sono le porte degli appartamenti delle donne amate, sbattute in faccia. Tutto ad un primo livello, epidermico, di lettura, ma l’abbiamo detto che siamo già stati qui. Il punto è che siamo condannati a restarci, nella metro di New York, negli appartamenti dei projects malfamati, nella luce che filtra da film come questo anche quando ti stanno antipatici, ma continui a ripensarci. Cos’era quel segno rosso sul muro? C’era davvero o l’ho solo sognato? E quel sangue vi servirà di segno sulle case dove sarete; e quando io vedrò il sangue passerò oltre, e non ci sarà piaga su di voi per distruggervi.
Titolo originale: Asphalt City
Regia: Jean-Stéphane Sauvaire
Interpreti: Tye Sheridan, Sean Penn, Michael Pitt, Mike Tyson, Katherine Waterston, Onie Maceo Watlington
Distribuzione: Vertice 360
Durata: 120′
Origine: USA, 2023