Città di carta, di  Jake Schreier

Green si conferma autore perfetto per le nuove generazioni smart e assennate, young adult senza senso di colpa, dai riferimenti moderatamente colti quanto sgamati, sogno americano in versione minimal

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Alle prese con un archetipo di letteratura e cinema popolare americano come l’ultima avventura del gruppo di amici prima di salutarsi per sempre (sia per il college o per la guerra o i cambi di città o la morte…), John Green dà col suo romanzo Città di carta una buona dimostrazione dell’innegabile svilimento dell’intero armamentario proprio della produzione indipendente USA per colpa del troppo essersi malauguratamente incaponiti sulla poetica del minimale, del quotidiano, del comune.

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Nell’adattarlo per il cinema, il giovane regista Jake Schreier può fasciare quanto vuole le sequenze-chiave con la solita selezione musicale ammiccante di queste sortite, e piazzare in voice over i frammenti più illuminanti del romanzo di Green, il risultato rimane comunque e irrevocabilmente viziato dall’assunto di partenza del riscoprire lo straordinario nell’ordinario, l’incredibile nella misura e non al di fuori. Per farti riuscire un’equazione del genere devi essere, solo per restare ai giorni nostri, quantomeno il Jim Jarmusch di Broken Flowers, ma Schreier, verosimilmente incolpevole, non è nemmeno il Chris Columbus di Una notte con Beth Cooper, titolo a cui potrebbe rimandare il primo atto con la lunga nottata di sabotaggi e follie passata dal protagonista con la vicina di casa Margo, di cui è innamorato da sempre.
E così la caccia al tesoro del teenager Quentin e dei suoi compagni di scuola alla ricerca della scomparsa Margo, bella scavezzacollo della finestra di fronte sempre pronta a sconvolgere il quartiere con le proprie marachelle, non porta a nessuna deriva on the road, a nessuna girandola fantastica di addii amari all’adolescenza mascherati da gioco da esploratori, a nessun perdersi nell’infinito paesaggio totalizzante e disperante d’America: qui si riesce a tornare in città in tempo per il ballo di fine anno, con la convinzione che più che un miracolo, la strada là fuori sia stata piuttosto una sbandata passeggera dalla retta via di questi volti puliti di probabili future star (ai due partner principali Nat Wolff e Cara Delevingne ruba spesso la scena la coppia di comprimari Austin Abrams e Halston Sage, decisamente più convincenti), o forse no. Il sogno americano in versione spicciolatamente innocua, salutista ed organic, a km 0.

Green si conferma così l’autore perfetto per le nuove generazioni smart e accoratamente assennate, young adult da fenomeno di vendite ma senza senso di colpa annesso alle edizioni da supermercato, dai riferimenti moderatamente colti quanto sgamati (Whitman, Woody Guthrie…), e dalla lodevole accortezza nel dosare melensaggini e zuccherosità (bello qui ad esempio l’incontro del finale che non cede meritoriamente a svenevolezze facili).
Il problema principale dello scrittore rimane il convincerci della straordinarietà dei personaggi sopra le righe che i suoi protagonisti incontrano e da cui rimangono invariabilmente affascinati, salvo poi preferire di restare coi piedi per terra: di questa insopportabile Margo come dell’altrettanto odioso Augustus Waters di Colpa delle stelle fatichiamo in realtà a registrare la nota eccezionale, la singolarità eccentrica e geniale. Probabilmente perché stiamo invecchiando.

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