Citto Maselli regista, comunista e responsabile

Ha maturato fin da giovanissimo le idee politiche alle quali è rimasto per sempre fedele e con quelle ha costruito il suo futuro di autore attento allo svolgersi degli eventi e alle mutazioni sociali

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Era stato l’amico di suo padre e padrino di battesimo, Luigi Pirandello, ad affibbiargli quel nomignolo che poi lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, come in una specie di battesimo laico, di segnaposto originale nel lungo cammino della sua vita.
Citto Maselli era nato a Roma nel 1930 in una famiglia intellettualmente vivace, un ambiente che avrebbe favorito il suo lavoro, la sua futura attività di regista. Dopo gli studi classici e già un piccolo lavoro cinematografico, l’iscrizione al Centro Sperimentale di Cinematografia ha segnato la sua attività futura e in quel clima appena post bellico, si era nel 1947, Citto Maselli ha maturato ogni necessaria esperienza e le idee politiche alle quali è rimasto per sempre fedele e ha costruito il suo futuro di autore attento allo svolgersi degli eventi e alle mutazioni sociali. Si era iscritto, nel frattempo, al Partito Comunista – al qual è restato sempre legato facendo parte anche di alcuni organismi che si occupavano della diffusione culturale nel partito – e quanto alla sua scuola di cinema sembra parlare da sola.

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È stato assistente di Visconti e Antonioni, apprendendo dai due autori, a loro modo estremi nel modo di considerare il cinema, le forme più diverse della messa in scena in un eclettismo che avrebbe arricchito la sua formazione laddove il barocchismo controllato di Visconti si opponeva al cinema spoglio e in sottrazione di Antonioni. In quegli anni ha conosciuto anche Cesare Zavattini. Con lui ha realizzato il suo primo lavoro ufficiale, Storia di Caterina, un episodio di Amore in città del 1953. In un lavoro collettivo con film firmati da Fellini, Antonioni, Lattuada, Risi e Lizzani, quello di Maselli è stato tutt’altro che consueto e trascurabile, restando, invece, forse il migliore dell’intera operazione voluta da Cesare Zavattini. Un film, il suo, che ha segnato forse la definitiva svolta per un addio al Neorealismo che aveva costituito la grande epoca del cinema italiano.

Due anni dopo questo esordio Maselli ha avuto l’occasione di lavorare al suo primo lungometraggio e nel 1955 ha realizzato Gli sbandati, una rilettura della Resistenza e uno sguardo ad un’Italia che da fronti opposti si avviava alla fine della guerra e gettava uno sguardo verso il futuro. Operazione culturalmente coraggiosa quella di Maselli e oltremodo ostacolata dall’establishment dell’epoca, che è stato spaventato dallo sguardo troppo politicamente orientato del suo autore, appena ventiquattrenne. Il film, che ambientato nell’imminenza dell’Armistizio racconta dell’amore del nobile Andrea verso la profuga e operaia Lucia, lavorava su un’idea di un’Italia già politicamente divisa all’epoca della fine della guerra e avviata ad una contrapposizione tra residui di ideologie reazionarie e spinte progressiste e innovatrici negli anni del governo Scelba.
Di scelte di parte e quindi ontologicamente coraggiose Citto Maselli ne avrebbe fatte altre nella sua vita e se il suo cinema è stato forse troppo considerato come segnato da una permeazione eccessiva dell’ideologia comunista, forse, il tempo e la sua scomparsa, contribuiranno a restituire a questo autore, perfino troppo dimesso nel panorama italiano, un ruolo di maggiore rilievo e tutt’altro che trascurabile nella storia del nostro cinema.
Il suo percorso di autore è stato soprattutto segnato da quella responsabilità che si assumeva nel girare un film, profondo assertore, come da insegnamento impartitogli dal Maestro Visconti, del ruolo del cinema e dell’arte in generale e quindi di quella sempre più rara responsabilità autoriale che riguardava il modo di concepire il mondo. Diceva di Visconti: mi ha insegnato la responsabilità, umana e sociale e quindi politica, di quando si fa un film.
È da queste riflessioni e da questa concezione della vita e del ruolo dell’intellettuale nel costruire un nuovo modo di guardare alla realtà che sono nati i suoi film sempre, nel bene e nel male, radicati nella storia dell’epoca che visse, nei guasti di una società dentro le cui pieghe si nascondevano le contraddizioni che spettava anche al cinema, come luogo di dibattito, evidenziare con lo scopo di ricucire gli strappi o indicare una strada per sanarne le crepe.
Nascono da queste critiche del presente film come I delfini (1960) alla cui sceneggiatura hanno partecipato anche Alberto Moravia ed Ennio De Concini. Un ritratto impietoso della gioventù di quella benestante borghesia cittadina pronta a prendere il posto dei padri. Un destino segnato per questi giovani “delfini” e anche per la proletaria Fedora del tutto fuori luogo in quell’ambiente. Sugli stessi temi, qualche anno dopo, Gli indifferenti (1964), efficace lettura del romanzo di Moravia, nel quale si sentono gli echi del cinema di Antonioni soprattutto nella asciutta e quasi rarefatta composizione del racconto e quelli di una decisa critica ad una certa mollezza della borghesia post fascista italiana, ma forse proprio per questo film avversato e non compreso. Lettera aperta ad un giornale della sera (1970) diventa parabola di una sfida critica al mondo della sinistra. Un film che oggi forse potrebbe risentire degli anni, ma anche necessario perché girato dall’interno di quel vortice che caratterizzava l’intellighenzia di sinistra, che misura il coraggio di cui dicevamo e il polso fermo, in ogni occasione del suo autore.
Appartiene allo stesso lavoro di elaborazione culturale il film successivo, Il sospetto del 1975 con Gian Maria Volonté. Un film sul ruolo del Partito Comunista in una ideale prosecuzione con Lettera aperta ad un giornale della sera. Il suo cinema narrativo si confondeva con quello più prettamente documentaristico che coltivò con interesse e con la produzione di molte opere, almeno fino agli inizi degli anni ’60 senza mai abbandonare questa sua propensione sociale e riversando anche nel cinema fatto di narrazione questo suo spirito “didattico”. Il sospetto conferma la pratica unità di intenti e il poliedrico e sempre attento percorso autoriale di Maselli.
Dall’attenzione verso un mondo che muta e il simultaneo sguardo verso le classi sociali più basse nascono due film che non molta fortuna hanno avuto al loro nascere, Storia d’amore del 1986 e Codice privato del 1988. Due film che si percepiscono come figli di un’unica riflessione in qualche modo apocalittica sull’esito di un impegno politico mai cessato per il comunista Maselli che a 90 anni, in occasione della Mostra del Cinema di Venezia del 2021, alla cerimonia di consegna di un premio alle Giornate degli Autori, di cui in passato è stato fondatore, ha detto: sono comunista da quando avevo 14 anni e ne sono molto orgoglioso.
Il suo ultimo lavoro per il cinema è stato ancora segnato, quasi emblematicamente, dalla partecipazione ad un film collettivo. Il suo episodio Sciacalli contribuì a dare vita a Scossa del 2011, un racconto ad episodi sul terremoto di Reggio Calabria e Messina del 1908. La riunione ideale che questo film segnò di autori come Lizzani e Gregoretti insieme a Maselli e al giovane Nino Russo, costituisce forse un altro segno che annunciava la fine definitiva di un periodo e di un‘epoca del cinema italiano. Un’epoca segnata dai conflitti e dalla responsabilità che Maselli e i suoi colleghi sulla stessa linea seppero sempre interpretare con scrupolo e senza arroganza, ma con l’umiltà e la consapevolezza di un lavoro politico e culturale quotidiano con le armi del cinema.
Di recente il film Citto di Daniele Ceccarini riassume la figura intellettuale, autoriale e soprattutto umana di Citto Maselli, che, siamo sicuri, starà lavorando per un mondo migliore in quell’al di là che lo ha accolto.

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