Close Your Eyes, di Victor Erice

Il regista spagnolo torna con un nuovo film dopo più di 30. Una struttura di cristallo, una visione “infantile”, che mostra ancora una fede nella possibilità del miracolo. Cannes Première

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Triste-le-Roy è la villa in cui si consuma l’epilogo di La morte e la bussola di Borges, una specie di racconto giallo cabalistico, fondato sulla ricerca del nome impronunciabile di Dio, il tetragrammaton ebraico YHWH. Un nome di cui si è perso anche il ricordo della pronuncia esatta… Ed è sotto il segno di questo misterioso Re Triste che si apre Cerrar los ojos (Close Your Eyes), il nuovo lungometraggio di Victor Erice, il quarto a più di trent’anni di distanza da El sol del membrillo. Tanto tempo fa… e questo già di per sé dovrebbe fare di questo film un “evento” (di conseguenza un’occasione mancata dal Festival di Cannes, che ha scelto di relegarlo nella sezione Cannes Première, con tanto di incomprensioni con Erice)…

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Nel 1947, in una enorme e lugubre villa, un miliardario ebreo sefardita incarica un uomo di andare alla ricerca della figlia adolescente, che la madre ha portato con sé a Shanghai anni prima. E già avvertiamo l’atmosfera di un’intricata storia di avventure, di ricerche da una capo all’altro del mondo, di élite che sono circoli esoterici, un racconto dove il senso delle cose forse riposa nelle combinazioni di una partita a scacchi (“il re è la pedina più triste”). E ha ragione chi tira in ballo Welles o Corto Maltese, ma c’è anche la trinità Chandler-Faulkner-Hawks, con la suggestione dell’inizio de Il grande sonno… Con in più l’eco della guerra civile spagnola, solito in Erice, con il “detective” che ha combattuto con il Fronte popolare contro Francisco Franco.

Eppure, è una falsa pista. Quella a cui assistiamo è solo la scena di un film, girata nel 1990. Un film incompiuto, per la scomparsa mai definitivamente chiarita dell’attore Julio Arenas. Vent’anni dopo il regista di quella pellicola, Miguel Garay, viene ricontattato da un programma televisivo che si occupa di persone scomparse. E da lì viene risucchiato in un passato che aveva messo da parte.

A ogni modo, siamo di fronte a un mistero. A una vicenda di sparizioni e sottrazioni, che sembra il riflesso perfetto della figura appartata di Victor Erice, con la sua esigua filmografia, con i suoi lunghi silenzi. Ma è un mistero che avvolge la stessa sostanza del cinema, abitato da fantasmi, da illusioni che mimano la forma della realtà o da verità segrete che si manifestano a tratti, nel batter d’occhi. È chiaro che l’idea del film incompiuto e l’amnesia retroattiva che affligge il personaggio di Julio Arenas e che cancella ogni suo ricordo, sono le chiavi di un discorso a più livelli. Raccontano la vana pretesa di trattenere le cose in un fotogramma e in un’inquadratura. Ma è una pretesa che nasce dall’intuizione che un’immagine può conservare la traccia confusa di una storia, come la foto ingiallita di una bambina con gli occhi a mandorla. Può valere come segno di riconoscimento, al pari di un oggetto simbolico, ancor più di un oggetto. Al pari di una musica. Gardel fischietta vecchi motivi di tango, che ha sentito Dio sa dove. Ma chi è Gardel? Chi era Gardel? Chi ricorda più quei vecchi tango? Dobbiamo scavare a fondo per ritrovare le note e le parole. In quale film si cantava My Rifle, My Pony and Me? E poi, nella precarietà dei supporti, cosa garantisce la stessa sopravvivenza delle immagini, la loro riproducibilità, la loro fedeltà a un’intenzione iniziale? Più che mai oggi in questi tempi digitalo, nonostante l’illusione di una smaterializzazione eterna. Le discussioni tra il vecchio proiezionista Max e Miguel sono una rassegna approfondita di tutti questi argomenti.

Erice sa che i nostri ricordi sono intessuti di vita e di cinema. Ma sa anche si tratta di ricordi sempre prossimi alla sparizione. Soprattutto quelli del cinema a cui guarda lui, quando tira in ballo Un dollaro d’onore (sempre Hawks) o rimette in moto il treno dei fratelli Lumière. Il treno è sempre il treno, dovrebbero farli passare più spesso, avrebbe detto qualcuno. Ma una volta passato, il treno non c’è più, ne sentiamo in lontananza lo sferragliare. Il cinema è passato, è del passato. Il cinema non c’è più? Ma non è questo il punto. Ci sarebbe il rischio, a intendere le tirate di Max, di intendere tutto questo come un discorso di retroguardia, di nostalgia per un altro tempo. “I miracoli al cinema non ci sono più da quando è morto Dreyer”. Ma questa è una pratica a rischio che poggia da sempre su una mancanza e sull’orlo dell’oblio. La differenza rispetto alle altre infinite immagini che circolano oggi, è che il cinema ha la consapevolezza di queste mancanze, di una fragilità sostanziale. O almeno dovrebbe averla. Dovrebbe porsi il problema dell’assenza, del limite, dell’inganno degli occhi. E proprio questo dovrebbe aprirlo alla tensione, metterlo all’ascolto di un’altra dimensione di meraviglia e di mistero.

Erice costruisce il suo film a partire dalla profondità della scrittura e dalla complessità dei temi e della narrazione. Ma su quell’impalcatura, monta una forma leggera, quasi “invisibile” di inquadrature “piane”, chiare, di tagli di montaggio regolari, cartesiani. Lascia agli attori il compito di fare il loro gioco e richiama Ana Torrent da Lo spirito dell’alveare (1973). E innalza una struttura di cristallo, trasparente, pulita. Quasi una visione “infantile”, che però mostra ancora una fede nella possibilità del miracolo. Nonostante tutto. Qualcosa che può nascere da un’epifania. O che si forma nella mente e nel cuore nel momento in cui le immagini sono passate, le luci si spengono e gli occhi si chiudono.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
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Il voto dei lettori
4.5 (2 voti)
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