"Colin Farrell, un'idea di classico".

E' ancora molto giovane Colin Farrell, ma pare già seriamente intenzionato a riprodurre nel suo stile recitativo una traccia mimetica che adocchia il modello classico, nel tentativo di riprodurlo e non di superarlo.

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

E' ancora molto giovane Colin Farrell, ma è uno di quei nuovi volti sfornati di recente da Hollywood su cui ci  sentiamo di scommettere, affidandoci dunque a quello che di buono ci ha fatto vedere fino a questo momento. Contestualizzarlo all'interno di un preciso asse attoriale non è facile, dunque cerchiamo di ricavare dalla sua ancora esile filmografia (ha all'attivo una decina di titoli) qualche traccia che ci aiuti a definirlo rispetto alle strategie produttive della Hollywood del momento. Partiamo però prima di tutto da qualche elemento biografico. Colin nasce il 13 marzo del 1976 a Castleknock (Irlanda) ed è il più piccolo dei quattro figli avuti da Rita e Eamonn Farrell, il quale negli anni '60 giocò nella squadra locale di calcio degli Shamrock Rovers. Il piccolo Colin dunque, anche per via di innate qualità calcistiche derivategli dal padre, sembra già da piccolo essere avviato alla carriera di calciatore professionista, ma le cose non vanno esattamente così. Accanto infatti alla passione per il calcio giocato in sperduti campetti di periferia, Colin mette subito in luce un discreto talento nel mettersi in scena, nel rappresentarsi di fronte a parenti e amici, prima in classiche riunioni domenicali, poi direttamente dai palchi amatoriali delle recite scolastiche. E' un bambino intelligente, sa già il fatto suo, e le idee che campeggiano nella sua fantasia di ragazzino irlandese sono già abbastanza chiare.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Dopo aver passato un anno in Australia maturando definitivamente l'idea di non seguire le orme paterne, Colin decide di iscriversi alla Gaiety School of Drama di Dublino. Ecco allora il suo inizio, i primi esordi e soprattutto i decisivi incoraggiamenti avuti da compagni e professori della scuola. Ma Colin mostra un temperamento abbastanza ribelle, insofferente alle regole, ai diktat autoritari provenienti da un ambiente troppo rigido per il suo carattere. Così, dopo poco meno di un anno di frequentazione della scuola, se ne va in cerca di fortuna altrove. E' così la volta della televisione prima, e poi infine del cinema. Riesce a collezionare delle partecipazioni interessanti a serie televisive di discreto successo, e torna a recitare teatro con In a Little World of Our Own (rappresentato presso la Donmar Warehouse di Dublino). E' in questa fortunata coincidenza che Colin viene notato da Kevin Spacey, evidentemente affascinato dal suo stile recitativo e dalla sua prorompente forza espressiva. Proprio in quell'anno Spacey stava lavorando con l'irlandese O'Sullivan al progetto di Un perfetto criminale, ed ecco dunque Farrell reclutato per una parte, sia pur minore). Il film è il classico prodotto medio affidato alla bravura degli interpreti (e Farrell accanto a Spacey certo non sfigura), ma risente eccessivamente del peso della sceneggiatura che lo ingabbia subito in una spirale dai contorni abbastanza consueti. Comunque Farrell si trova a suo agio, perfettamente inserito all'interno di un gruppo di attori molto affiatati.

Il passo al cinema maggiore è breve. Ecco allora Joel Schumacher che gli affida il ruolo del soldato Bozz in Tigerland. E qui Farrell fa il suo vero ingresso nel cinema con un'opera non irresistibile (Schumacher comunque ha fatto di peggio), ma capace di consegnarli una parte che gli si adatta benissimo. Bozz è un soldato irrequieto, un piantagrane insomma che cerca in tutti i modi di escogitare delle soluzioni per far riformare alcuni suoi compagni, impossibilitati a combattere per ragioni fisiche (sia pur nel campo di simulazione virtuale di Tigerland). Il gioco finzione/realtà di Schumacher mostra la corda abbastanza presto, ma ci pensa Farrell a restituire all'opera quegli scampoli di sana fisicità che un film di guerra (vera o soltanto simulata) deve avere. Più vicino al soldato Joker di Kubrick (in quanto a coscienza della situazione extraquotidiana in cui si è immersi), che allo Sheen di Coppola, vero artefice di uno spaesamento straniante rispetto all'automaticità incosciente dell'atto di guerra), il Farrell di Tigerland è corpo da combattimento, ma al tempo stesso macchina critica ben funzionante, dualità irresistibile di carne e spirito, in grado di prodursi quale senso riassuntivo della finzione che interpreta.

Dopo i ritorni classicheggianti de Gli ultimi fuorilegge, è la volta dello Spielberg di Minority Report (2002), previsione infausta e apocalittica sul destino dell'immagine/uomo, e sulle potenzialità ancora inespresse della macchina cinema, dei suoi contatti virtuali (peraltro già presenti in filigrana negli splendidi corti narrativi di Dick a cui il film si ispira direttamente) con l'altra parte del visibile. Farrell accanto a Cruise dunque, nel ruolo di un suo collega che si trova ad indagare sulle sue presunte malefatte. E' una parte di contorno, ma rappresenta all'interno della ricapitolazione melodrammatica dell'ultimo Spielberg (proprio quello che parte dagli artifici nostalgici di A.I, fino a culminare nelle profondità delle vite mancate di Prova a prendermi) una sorta di elemento di congiunzione morale tra i due strati in cui è incastonata la vicenda (appunto thriller e melò): si tratta di interpretare l'essenza di un'umanità pronta a calpestare anche i sacri vicoli dell'amicizia pur di non disobbedire alle regole imposte dalla legge. E' lui infatti che scatena la caccia contro Cruise, ed è sempre lui a morire per mano del decano Von Sidow, proprio nel momento in cui si avvicina definitivamente alle soglie della comprensione di tutta la vicenda in cui è immerso. A differenza dell'ormai veterano Cruise, Farrell si autoimpone un codice di recitazione quasi dimesso, all'apparenza sobrio e compunto, quasi compassato, ma estremamente stimolante, soprattutto per la capacità di creare un personaggio (carne ed ossa dunque, non soltanto funzionalità narrativa). Sa essere molto fisico Farrell (nel senso di saper graffiare la messinscena con una muscolarità evidente), ma al tempo stesso quasi astratto, incarnazione ideale di un tipo narratologico dai contorni ben definiti, anche se progressivamente mutanti.

In Sotto corte marziale (dell'interessante Gregory Hoblit) tiene testa al grandissimo Bruce Willis tra le quattro mura di un tribunale militare in cui si trova a difendere un nero accusato di aver ucciso un sergente bianco (peraltro razzista). Hoblit sa benissimo come si lavora sul genere. E il lavoro che fa con gli attori si vede benissimo, soprattutto nella gestazione dei diversi blocchi narrativi. Farrell è uno studente di legge, si trova a doversela vedere con avvocati molto più esperti di lui, ma è proprio sulla sua continua oscillazione travestita da sicurezza, che la messinscena si fa trasparenza sovrimpressa di un filmare (sarebbe piaciuto a Dmytryck) che guarda al cinema del passato per affrontare meglio quello del presente. E Farrell si mette volenterosamente a servizio del regista, incarnando la democraticità pregnante dell'idealista a tutto tondo che si scaglia contro l'ottusità dei vertici militari. Il cinema classico lo si può dire a livello visivo (questa la lezione di Mendes, ma ancor di più di Darabont), a livello strutturale (Eastwood ne sa qualcosa), ma anche direttamente sul corpo di un attore. In questo frangente il Farrell diretto da Hoblit (specialmente nel surplace giudiziario) ci pone di fronte una corporeità assimilatrice di occhi/sguardi di gran parte del cinema classico americano, trattandosi pur sempre di ricostruire una gestualità fittizia (diremo cinematografica) all'interno di un canale espressivo/comunicativo che pone il classico non come un problema da risolvere (o peggio ancora da superare), ma come un esempio da ritualizzare, traslandolo nei meccanismi produttivi di oggi. Ecco allora dove inizia il lavoro di Farrell, e la sua aderenza perfetta (sia pur giustamente smagliata in più punti) al progetto di una riviviscenza della caratura attoriale di ieri in quella di oggi.

Idea di cinema peraltro presente anche nel mediocre Donaldson de La regola del sospetto,, raffreddato per bene e poi affidato all'estro di una sceneggiatura (apparentemente) ricca di sorpresa. E' un cinema davvero poco inspirato quello dell'americano, ma anche in questa occasione Farrell costruisce un personaggio niente male, diretta filiazione del classico soprattutto nel ricavare il senso della sua presenza da un'immagine (puramente mentale): quella del padre, morto in circostanze da chiarire. Donaldson non si sofferma più di tanto su questo punto, lo fa Colin: è un corpo il suo impegnato a fraseggiare con l'ossessione di una perdita che si fa pura occasione di cinema attoriale. Come insegnava Edipo, il racconto/cinema/recitazione si muove nella direzione della ricerca di una figura paterna. Farrell pare che l'abbia trovata (già dalla sua prima apparizione in Zona di guerra di Tim Roth) nella filigrana polverosa che lo separa dal corpo del classico. Dalla sua ombra.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array