Colle der Fomento, Speranza, Pericolo e Ketama 126. Impressioni all’aperto

Due serate, Parco Schuster e Rock in Roma, con le poesie dei Colle der Fomento, la musica “impura” di Speranza, le grida di Pericolo e l’acclamato e colorato Ketama, figlioccio del Truceklan

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Arriva l’estate e le città si ripensano all’aperto. Le piazze e i cortili si trasformano in arene, i pub si svuotano e riversano all’infuori. I parchi e i luoghi abbandonati ospitano concerti. La Capitale sembra scrollarsi di dosso il torpore che l’attanaglia, rianimandosi un po’…

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DANNO, MASITO E DJ BARO

Io la metto in rima questa guerra pe potella cantà

Davanti all’entrata di Parco Schuster c’è una lunga fila. L’età è varia, ci sono i 20 ma più i 30 e i 40, pochissimi adolescenti e qualche genitore con bambino piccolo che zampetta sul terreno polveroso. I Colle der Fomento, sulla scena dai primi anni 90, noi abbiamo iniziato ad ascoltarli al liceo e cioè nei primi 2000. In contemporanea sentivamo anche il Truceklan, collettivo hip hop nato nel 2003 dall’unione dei Truceboys e gli In the Panchine. Con l’avanzare dell’età, improvvisamente smaniosi di etichettare, ci si è divisi fra chi preferiva i Colle e chi il Truce, diversissimi fra loro certo, ma ancora non c’era bisogno di fare chiarezza: bastava che fosse rap e che cantasse quella Capitale che giravamo in motorino nelle sue infinite e labirintiche sfumature.
Lo spazio del Parco è stracolmo, la basilica di San Paolo è attenta spettatrice. Dopo l’apertura dell’energico gruppo romano Do Your Tang, ecco che si affacciano nel buio le prime note di Storia di una lunga guerra, traccia di apertura del nuovo album dei Colle, Adversus. Salgono finalmente sul palco Danno, Masito e Dj Baro. Da adesso fino alla fine conta solo la doppia H di Hip Hop, continua a ripetere Danno. Gli ingredienti della messa in scena infatti sono scarni e il risultato finale, ricchissimo. Base e parole. I versi rotolano e si susseguono uno dopo l’altro, senza mai inciampare. Ogni parola è estremamente importante, perchè questo rap qui succhia il suo nutrimento dall’essenza prima dell’hip hop: una lotta costante che scaglia le sue parole più forte delle bombe. Urlano l’esser contro i Colle, quell’Adversus che dà il titolo al nuovo album tanto atteso. Il loro amore per il rap è sconfinato, sfruttano la possibilità di rivincita insita nelle strofe, pallottole nella laringe contro il potente, che sia il mostro dentro di noi o quello esteriore che ci sottomette. Si tratta di prendere un microfono e dire la propria, urlare i propri diritti e fare la guerra, con la sacra consapevolezza del peso specifico delle parole. Danno si staglia sul palco con la sicurezza di un profeta e l’abilità di un poeta; dopo il suo concerto usciamo pieni e nutriti, perché il rap dei Colle è semplice e pregno di contenuti, non solo politici ma anche filosofici e sempre profondamente letterari. Perfino la loro Roma, quella di Danno, Masito e Dj Baro, sembra una splendida donzella, la protagonista di un romanzo che “troppe volte ha visto l’amore fasse rosse sulla lama di un coltello.

SPERANZA

Trasim nta galera ca tuta ra Legea

A Rock in Roma un buffo ceffo all’entrata pesca avidamente da un pacco di Gocciole mentre ci fa cenno di entrare. Passiamo il codice a barra del biglietto sotto il lettore elettrico. Lo spazio di Capanelle è ampio, si paga con i token e ci sono due palchi, uno molto grande (dove a fine giugno ha suonato l’eroe partenopeo mascherato) e uno leggermente più piccino, dove stasera si esibiranno Speranza e Massimo Pericolo, per poi lasciare il palco a Ketama 126, membro della Love Gang trasteverina.
Speranza sale sul palco, insieme a lui c’è il suo immancabile compagno di vita, il gigante Rafilù, “uno dei primi a spronarmi a riprendere il rap, la fiamma che ha fatto partire l’esplosione” racconta il rapper franco-casertano in un’intervista a Noisey. Anche Rafiluccio aka Barracano fa rap e uno dei suoi video cardine è sicuramente Mon Cherì Freestyle. Caserta come il Cairo canta Rafilù e in effetti la sala giochi in cui è girato il video potrebbe essere situata in qualsiasi meridione del mondo e la voce del rapper, anche se modificata dall’autotune, rimanda alle più profonde sonorità mediterranee. Una Peroni grande una pita, insiste. Poco dopo Speranza entra nella sala con una cassa di Peroni tenuta Spall a sott, come il titolo della sua canzone, riferito alla presa della statua di Santa Anna quando c’è la processione a Caserta. Tradizione e appartenenza sono concetti fondamentali nella poetica di Speranza, ma solo rivelati nella loro vera essenza, restia a ogni pretesa di purezza e sempre instabile, indefinibile. D’altronde Speranza è nato e cresciuto nella banlieue francese Beheren 57, insieme ad albanesi, rumeni, zingari e arabi, fratelli con cui sopravvivere a quell’Odio raccontato da Kassovitz, quello che dilaga come un’infezione. Le tute della Zeus, della Givova e della Legea comprate al mercato delle pezze vecchie sono un elemento fondamentale per comprendere il rapper casertano. Perché molte delle sue sonorità, come le tute indossate, sembrano venire da quei mercati, sottotesto narrativo di ogni città, radicati al terreno ma al contempo mobili, sempre aperti.
I testi di Speranza sono importanti, le sue parole scelte con precisione; il rapper ci tiene a dire che “se canti la pace e l’amore non smuovi le malecoscienze. Il male va combattuto col male”. La speranza è quindi quella di infondere la voglia di cambiare, di fare rivoluzione, di ribellarsi alle dinamiche che ti ancorano ad un’unica definizione, quella decisa dal quartiere da cui provieni o da una qualsivoglia presunta razza. Dei suoi ghetti Speranza esplicita ogni sfumatura e zozzatura come nella traccia Modalità.
Nei mercati l’urlo è quasi più importante del contenuto che si vuole comunicare…Dunque bastano anche solo le urla, i testi sono incomprensibili per chi non mastica il casertano, ma le basi sporcate e l’atmosfera gitana rivelano da sole una musica da subito guerriera.
Balbetta Speranza fra una traccia e l’altra mentre si rivolge al pubblico di Rock in Roma. Balbetta sì, ma appena rappa la sua voce scorda ogni inceppo e si fa ruggito, è profonda, il suo corpo isterico e scattante. È quella violenza buona, quella che esce e non marcisce subdola, quell’Adversus che si sublima in musica e si fa lotta non appena si palesa.

MASSIMO PERICOLO

Fare una vita normale, tipo dormire col cane

Quando Massimo Pericolo sale sul palco di Capannelle, l’energia sprigionata da Speranza e Rafilù lascia spazio a qualcosa di completamente diverso, che attinge dal grigio delle periferie nordiche, distante anni luce da Caserta o dal cielo estivo che sovrasta l’Appia Nuova. Il ragazzo di Brebbia, periferia di Varese, solo all’apparenza è più pacato nei modi rispetto ai due colleghi casertani, in realtà emana un’altra forza dal suo corpo giovane e fiero, mentre ritorna su un rap di parole di nuovo chiare e comprensibili, precise e dirette. Non c’è dialetto e non c’è uso di autotune. Non ci sono radici e non c’è tradizione, quella è una roba che questa nuova generazione già sa morta alle proprie spalle. Questo ragazzetto del ’92 , diventato famoso grazie a 7 miliardi, inizia il video della sua traccia bruciando la sua tessera elettorale. Poco dopo ecco la frase: sono il futuro ma senza futuro. Sullo sfondo camion parcheggiati su piazzali desolati, eroina sulle stagnole.
Col tempo Massimo Pericolo mostra però un’altra anima, assimilabile a quella di 7 miliardi ma anche molto diversa, profondamente biografica e malinconica. A conti fatti la sua musica si rivela incredibilmente intima, un rap bullo che sputa parolacce e paroloni ma che in realtà, mentre narra il suo passato, cerca ancora quella rivincita di cui abbiamo già parlato. Urla sempre Pericolo e anche quando la base si fa dolce e il ragazzo varesino sembra smettere di arrabbiarsi, sempre confessa fra le righe il bisogno di un rifugio e di una solidità, negata da ogni autorità o istituzione che dovrebbe garantirla o semplicemente dalla vita stessa. Ed è ancora lotta al potente, esteriore e interiore, è fuga dall’ansia e dall’angoscia senza appigli. Il ragazzo odia e ama con passione il grigiore della sua periferia, uno spleen nutriente che gonfia le sue rime come piume maestose. Prende forza dalle Sabbie d’oro del lago dove si incontra con gli amici più cari, sfrutta le sue origini e canta “sei miei fossero ricchi non sarei chi sono ma sono due falliti e senti come suono“. Su e giù, accettare e rigettare. C’è solo un futuro incerto e un cuore spezzato dall’amore che non può ricomporsi del tutto.
Chiude con 7 miliardi Pericolo, ed è la traccia che fomenta di più il pubblico, mentre lui salta sul palco e si prepara ad accogliere Ketama, a cui ha regalato una delle sue strofe più belle nella traccia Scacciacani.

KETAMA 126

Non ho contenuti perché sono vuoto dentro.

Al concerto ci sono anche Noyz Narcos e il Chicoria ma non salgono sul palco a rappare. Sono lì come ospiti d’onore, padrini silenti che Ketama 126, accolto con furore dai fan, non perde occasione di omaggiare. I due rapper, ex membri del Truceklan sopracitato, ci nutrivano con il loro Death Rap, ed erano unici nel panorama italiano. Raccontavano il malessere della periferia ma più in generale il disagio di vivere e la droga come via d’uscita. L’immaginario era osceno, trash e attingeva alle fonti più varie, soprattutto cinematografiche: gli horror italiani degli anni 70, gli snuff movie, e ancora Tinto Brass e i film porno, colorando le strofe di ogni genere di citazioni, inneggiando a Laura Palmer, Peter Cushing e pisciando sul jet set del rap italiano, portando sangue infetto in dono al Vaticano dal sert del Casilino. Ci si stagliava di fronte un’altra Roma rispetto a quella cantata dai Colle e in generale un diversissimo approccio e utilizzo del rap, lontano dall’Adversus politico e dal valore del collettivo. Non più il malessere esistenziale del poeta Danno ma uno molto più oscuro, connesso a quella solitudine e perdita di valori che in quegli anni si esplicitava nei rave illegali e nella cassa dritta della musica techno.  Ma anche se non era politica la lotta c’era comunque, ed era palpabile la grinta e il senso di rivalsa possibile solo col rap, per questo ne La Calda Notte Noyz Narcos ci arriva come un pugno allo stomaco quando dice non morire prima di incidere un doppio vinile. Strisciava sempre nella notte il Truceklan, come  un vampiro vivendosi la Roma più cruda e puttana. Dalla strada e dallo squallore bramava il lusso dei soldi, delle prostitute e della droga a palate. Ma questo rifiutando comunque il glamour e anelando a una ricchezza sempre fuori e contro il sistema.
Così mentre ascolto quest’ultima tranche del concerto, esclusa dalla bolla di adolescenti che mi circonda, penso che c’è una differenza fondamentale fra il Truceklan e il loro figlioccio Ketama 126 sempre agghindato. L’esponente dall’animo più commerciale della Love Gang (per Franco 126, Ugo Borghetti e gli altri occorrerebbe scrivere altri trenta paragrafi…) che in Rehab inneggia alle troie love gang sesso droga amore non è mai davvero sovversivo o ai margini. Neanche quando sul palco pretende le sue ballerine di lap dance, che poco dopo si contorcono intorno ai pali. La scena è così ricca, ci sono i gonfiabili a forma di fenicotteri e Pretty Solero, altro membro della gang, si mostra al pubblico come mamma l’ha fatto. Lo cacciano. Ma tutto è perfettamente nella norma, tutto fa parte del gioco. Il concerto d’altronde si è aperto con pubblicità e trailer su un grande schermo sul palco. Quel’assenza di contenuti e valori di cui parla Ketama nella sua trap con l’autotune che mi fa tanto sorridere, diventa sì un contenuto ma senza la reale consapevolezza e la guerra al vuoto generazionale di Massimo Pericolo. E se il Truceklan anelava al consumo Ketama è invece figlio del consumo stesso, un prodotto di quest’epoca dell’immagine e dell’apparire che mi attrae e mi repelle, a tratti davvero incomprensibile per me, magnetica ma al contempo meno poetica delle pornostar nei video del Truce.

Dopo Capannelle io e Fra, amica di una vita, torniamo verso San Giovanni. Lei sfreccia sul motorino, io le sto aggrappata dietro, va troppo veloce e la riprendo. Mentirei se dicessi che ai tempi del liceo, quelli dei Colle e del Truceklan, non l’avrei sgridata allo stesso modo. Sono sempre stata una cacasotto. In fondo non sono cambiata per niente, mentre mutano insieme generazioni e musica e l’estati romane si susseguono una dopo l’altra.

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