COMICS – Moebius: che forma ha la creatività?


Sulle pagine di Métal Hurlant Moebius ha smontato (mattone dopo mattone) la costruzione classica delle storie a fumetti costruite sulla solidità della sceneggiatura, per poi ricostruirle, di volta in volta

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moebius_autoportraitLa cultura di massa sceglie in ogni momento il suo medium: lo strumento, cioè, che meglio è in grado di rappresentare (ma soprattutto di diffondere) le sue aspirazioni e le sue ansie. Se questi primi anni del nuovo millennio sono gli anni di internet, c’è stato un periodo: per quasi tutti gli anni ‘70 e buona parte degli ‘80, in cui il fumetto seppe ritagliarsi un ruolo da protagonista nella diffusione della cultura giovanile e di massa (fino ad allora questi due termini sono stati molto più intercambiabili di quanto non lo siano oggi, dopo che i giovani hanno abdicato al ruolo di guida della cultura di massa) confrontandosi alla pari con i tradizionali bastioni della cultura giovanile che erano la musica ed il cinema.

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In quegli anni, infatti, il fumetto era terreno di grandi sperimentazioni: solo per fare qualche nome, c’era il fumetto underground di Robert Crumb, quello fantapolitico degli argentini Héctor Oesterheld e Francisco Solano Lòpez: creatori de L’Eternauta (che, sebbene pubblicato per la prima volta a fine anni ‘50, si diffuse internazionalmente proprio negli anni ‘70).

 

Grazie alla duttilità del mezzo, proprio con il fumetto si sperimentarono nuove forme, non lineari, di narrazione. La frase più citata, in questi giorni, per ricordare Moebius è quella con la quale presentava il suo Garage Ermetico: “ Non c’è nessuna ragione perché una storia sia come una casa con una porta per entrare, finestre che guardano gli alberi e un caminetto per il fumo. Si può immaginare una storia a forma di elefante, o di campo di grano o di fiammella di fiammifero”; ma lui è andato anche oltre, raccontando storie che nascono a forma di elefante, diventano un campo di grano e si chiudono come fiammella di fiammifero.moebius

 

Fu proprio Jean Giraud (che fino ad allora aveva firmato con lo pseudonimo di Gir le avventure del tenente Bluebarry, e da quel momento in poi adotto definitivamente lo pseudonimo di Moebius: sia per la sonorità del nome che in omaggio al nastro di Möbius che, oltre a rappresentare un paradosso geometrico, veniva usato tecnicamente, anche nel cinema, per la realizzazione di effetti ottici) a creare, insieme a Philippe Druillet lo spazio per queste sperimentazione: la rivista Métal Hurlant, che da allora in poi divenne la palestra per le loro sperimentazioni e, negli anni a seguire, anche di altri gradi autori come Bilal, Corben e Manara.

 

Sulle pagine di Métal Hurlant, Moebius ha smontato (mattone dopo mattone, verrebbe da dire) la costruzione classica delle storie a fumetti costruite sulla solidità della sceneggiatura, per poi ricostruirle, di volta in volta, a forma di elefante o di fiammella. Il suo più grande lascito è stato, forse, proprio quello di avere una sola regola narrativa: quella della curiosità e della magia del raccontare seguendo un’unica linea: quella del suo imprevedibile (ma inconfondibile) tratto. Fra quelle pagine, tra la metà degli anni ’70 e per quasi tutti gli anni ’80, vengono pubblicate le pietre miliari della sua bibliografia: Arzach, il Garage Ermetico e poi, dopo l’incontro con Jodorowsky, la saga de L’Incal pubblicata fra l’81 e l’88 che resta la sua opera più nota e apprezzata.

 

Inutile dire che l’effetto della pubblicazione di queste opere fu immediato quanto dirompente creando un moto di emulazione (o liberazione creativa, se si preferisce) che coinvolse tutta l’Europa, a cominciare dall’Italia dove, ad esempio, il giovane Pazienza si accingeva a pubblicare la sua prima opera: Penthotal, in cui il legame con il Garage Ermetico è forte sia dal punto di vista grafico che narrativo.

 

Naturalmente, la portata innovative del suo stile non poteva restare confinata nell’ambito del fumetto e, dopo l’incontro con Jodorowsky, il passaggio al mondo del cinema non tardò ad arrivare. Peccato, però, che la prima esperienza con il nuovo mezzo coincise con la faraonica quanto fallimentare impresa dello stesso Jodorowky di adattare per lo schermo il romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert. L’operazione, naturalmente, fallì ma ebbe almeno il merito di riunire in un unico progetto i più grandi artisti dell’epoca (fra gli attori avrebbe dovuto esserci anche Salvador Dalì) e di far lavorare insieme i due grandi talenti visionari dell’epoca, che di lì a poco forgeranno l’intero immaginario fantascientifico di fine millennio: Moebius e H.R. Giger (creatore grafico di Alien . Proprio sul set di Dune, Giger conobbe Dan O’Bannon, l’autore del soggetto di Alien).

 

Dan O’Bannon (personaggio più incline alle retrovie che alle luci della ribalta, ma il cui contributo è stato determinate in molte delle opere che hanno segnato il genere fantascientifico del periodo come, solo per fare qualche esempio: Alien, Dark Star, Blade Runner, Atto di forza; nonché creatore di quel gioiellino zombi/demenziale e antimilitarista che è Il ritorno dei morti viventi, capostipite di un sottogenere giunto fino a noi con titoli come Zombie Stripper o Planet Terror) è anche l’autore della sceneggiatura di The Long Tomorrow, illustrato da Moebius e pubblicato su Métal Hurlant nel ’77 che, per stessa ammissione di Ridley Scott, costituì la fonte d’ispirazione per le architetture metropolitane di Blade Runner. Moebius, tuttavia, rifiutò di collaborare direttamente alla realizzazione grafica del progetto perché impegnato nella realizzazione di un film d’animazione: Les Maîtres du temps.

 

La sua collaborazione fu, invece, diretta nella realizzazione di altre importanti opere del periodo come, ad esempio: Tron, Thematal hurlant Abyss, Willow ed Il Quinto elemento, la cui sceneggiatura, peraltro, è un affettuoso omaggio a L’Incal. Indipendentemente, tuttavia, dalla sua collaborazione diretta o meno, la sua “visione” del futuro ha permeato tutta la fantascienza degli anni ’80 e ’90. La raffigurazione che ognuno di noi ha delle caotiche megalopoli del futuro è mutuata dal suo lavoro.

 

I suoi impegni con il cinema, non gli impedirono di continuare a pubblicare capolavori anche dopo la chiusura di Métal Hurlant. Per questo ultimo periodo (dalla fine degli anni ’80 in poi) citiamo solo le sue due grandi (e diversissime) collaborazione internazionali: quella con Stan Lee con il quale rivisita in chiave più “europea” il personaggio più filosofico della “Casa delle idee”: Silver Surfer, nella storia breve Parabola; oppure quella con il maestro giapponese Jiro Taniguchi per Icaro con Moebius, insolitamente, solo ai testi, la cui realizzazione è stata particolarmente lunga e laboriosa.

 

 

Un autore, in definitiva, che non ha mai smesso di mettersi in gioco, di rigenerarsi senza mai cullarsi sugli allori di una carriera fin troppo prestigiosa, senza mai lasciarsi incasellare in comode (quanto sterili) classificazioni. E, come i suoi personaggi, sempre a cavallo tra due mondi: quello reale e quello onirico. Non è un caso, allora, che l’ultima mostra a lui dedicata dalla Fondation Cartier di Parigi (conclusasi esattamente un anno fa) fosse intitolata proprio “Transe forme”.

 

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