COMICS – The Dead Walk!

the walking dead
Uno sguardo a "The Walking Dead", il fumetto da cui è iniziato il nuovo culto dei morti viventi: scritto da Robert Kirkman, è un racconto di grande potenza metaforica, che offre una prospettiva impietosa sull’umanità costretta a guardare in faccia il proprio negativo. E anche una fantastica riflessione sui tempi del racconto seriale

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Walking Dead_sfondoOra che la splendida miniserie della ABC ha spopolato, ci si è resi improvvisamente conto della qualità di una saga come The Walking Dead, che al momento della sua uscita nelle fumetterie (nel 2003, da noi nel 2005) era rimasta appannaggio della solita cerchia dei pochi. L’operazione compiuta da Frank Darabont e soci è meritevole anche e soprattutto nella misura in cui non intende essere pedissequa e quindi uno sguardo alle pagine scritte da Robert Kirkman e disegnate da Tony Moore (prima) e Charlie Adlar (dopo) rappresenta comunque un’esperienza unica.

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Anzi, potremmo agevolmente affermare che, da un lato conoscere anche la miniserie tv è un vantaggio, dall’altro che il fatto stesso che questa si conceda libertà e differenze è assolutamente in linea con l’idea originale di Kirkman: raccontare il già visto, ma da una prospettiva differente. Che non è soltanto quella, scontata, del semplice racconto di morti viventi. Certo, questi fin dal titolo rivendicano una loro centralità, arrivando in pochissime pagine a conquistare il mondo. Talmente velocemente che lo spettatore, come il protagonista Rick Grimes, si “risveglia” già nel dopo-catastrofe. Che sia o meno una citazione di 28 giorni dopo (come tutti si sono affannosamente premurati di sottolineare) non ha alcun senso perché qui le istanze sono diverse, il citazionismo è solo una delle letture possibili e certamente non la più interessante. Ma, volendo stare al gioco, dobbiamo chiamare in causa, più che Boyle, naturalmente il sommo George Romero. Perché, anche lui, come il fedele seguace Kirkman, in realtà non racconta (soltanto) storie di zombie, ma di una prospettiva offerta all’umanità, che arriva a guardare in faccia il proprio negativo.

Walking Dead_cover volume 8Ecco dunque che la “fenomenologia zombesca” qui non ha casa, non c’è un perché, ma solo l’immanenza di una situazione in cui si è immersi. E dove, si badi, il pericolo non è estroflesso, ma al contrario diventa uno stato dell’essere. Con sapienza narrativa rara, Kirkman lavora sul tono della narrazione, partendo da quell’immagine isolata di Rick steso nel letto dell’ospedale vuoto. Il “mostro” resta sullo sfondo, come valvola di sfogo per un racconto che abbisogna di svolte narrative. Non c’è nemmeno quella pietà che Darabont mostra con strepitosa grazia nel finale del pilot tv, quando indugia empatico sulla figura spezzata di quel corpo che si trascina nell’erba: la scena c’è anche nel fumetto, ma la rigidità della griglia la scompone in poche vignette, fino a renderla frugale, veloce. Come veloce è peraltro il ritmo del primo volume: sembra che Kirkman voglia sbrigare in fretta la fase dei presupposti per arrivare al ricongiungimento di Rick con gli altri superstiti, in modo da lavorare sulle dinamiche di gruppo.

Da quel momento in poi i veri “Walking Dead” sono loro, gli umani, alle prese con l’immanenza della morte. L’Apocalisse è in corso e loro la vivono fino in fondo, lottando, spostandosi, scoprendo a ogni passo che il morso dei “vaganti” può attaccare quando meno te lo aspetti e d’un tratto chi era vivo diventa uno di loro. Qui Kirkman sfodera i muscoli e inizia il suo viaggio lungo una narrazione che indugia proprio sulla dilatazione dei tempi, sui tentativi di normalizzazione, sull’aspetto cronachistico di giornate che si snodano sempre uguali ma che presentano mille incognite e un incombente pericolo che diventa latente senso di morte, onnipresente, che costringe a riscrivere continuamente gli equilibri. Aspetto che peraltro il telefilm riprende bene, con i suoi tempi dilatati fino a raggiungere quasi una sorta di astrazione, ma che le matite di Adler (soprattutto) rendono particolarmente vivido, fra la fisicità dei corpi putrefatti e la deformazione dei visi sempre più provati dalle fatiche del sopravvivere. Un taglio visivo diverso da quello di Moore: quest’ultimo predilige figure più arrotondate e morbide, meno marcate, ci ricorda che siamo in un comic, mentre Adlar è realistico, ma con quella punta di impressionismo che comunque lavora nel nostro inconscio, ricordandoci che quell’incubo è una possibile realtà e che anche i momenti di stasi possono preludere a un nuovo Caos.

Negli 8 volumi sinora distribuiti in Italia dall’editore Saldapress (con una cadenza anch’essa estremamente “dilatata”, e una media di circa un volume all’anno, nell’eterna promessa di fare meglio…) il viaggio dei protagonisti si è conformato in un Walking Dead_Rick Grimeseterno fallimento e in una continua presa d’atto del proprio essere prigionieri di un mondo brutale. Come appunto nei capolavori romeriani, gli umani implodono. A volte lo fanno per semplice incapacità di coesistere: ne abbiamo vari esempi nelle azioni immorali che a volte si compiono, negli omicidi, nelle esecuzioni sommarie in nome del bene comune, nelle gelosie reciproche che sfasciano amicizie durature, nella tendenza a sacrificare anche gli amici per salvare gli affetti più cari. Ma è più sottile quella consapevolezza che avviene in maniera inconscia, quando i personaggi lottano fra loro per il privilegio di vivere in una prigione, e arrivano gradatamente a indossare tute da carcerato, a rinchiudersi a chiave nelle celle: praticamente a seppellirsi vivi in un enorme pietra tombale preferendo la reclusione nel piccolo all’incognita del grande. Determinando in tal modo una stasi sociale.

Di contro arriva l’altro grande personaggio del Governatore, che controlla un’intera cittadina, dichiara di agire in nome della sua gente, ma poi persegue vendette personali, convive con una nipotina zombie, colleziona teste umane in un mosaico che sfrutta a mo’ di maxischermo televisivo e cattura gli “stranieri” per gettarli in pasto agli zombi in modo che i suoi cittadini possano assistere allo spettacolo e ottenere così la loro catarsi.

La follia è in fondo la vera posta in gioco. C’è chi la sfugge, chi la teme, chi la rinnega (il personaggio di Michonne, tostissima guerriera dalla doppia personalità e autentico personaggio di culto), chi vi cede, e chi tenta una normalizzazione con essa. Che poi è quello che alla fine tentano di fare tutti i personaggi, cercando di fingere una normalità in un mondo ormai collassato.

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