"Contagion”, di Steven Soderbergh
Soderbergh è sempre stato in un modo o nell’altro il virus infettivo di Hollywood, filmaker-produttore-operatore ossessionato dalla schizofrenica mescolanza, a volte risolta in una dicotomia netta, tra industria e autorialità. Il controllo della forma da parte del regista americano in Contagion porta a una inconsueta attenzione alla precisione dei ritmi narrativi e alla rapidità di montaggio, ma comportano anche stavolta un distacco emotivo che a più riprese raffredda il materiale
A due anni di distanza da The Informant!, intervallati dall’esperienza low budget del quasi invisibile The Girlfriend Experience, Steven Soderbergh torna a quel genere di film corale che proprio dieci anni fa gli valse l’Oscar con Traffic, firmando da una sceneggiatura di Scott Z. Burns un’opera cupa, a tratti interessante, ma come spesso gli succede più intelligente che riuscita. Una donna appena atterrata in America da un volo proveniente da Hong Kong viene mortalmente stroncata da un misterioso virus. Non è la sola. A Hong Kong, Londra, Tokyo e Parigi altri casi cominciano a verificarsi senza che si riesca a capire la causa e soprattutto la cura contro il terribile morbo, che nel giro di settimane rischia di annientare gran parte della popolazione mondiale. Le storie scorrono in parallelo portando avanti due sottotrame principali: da una parte le reazioni e il dolore della gente comune al cospetto della malattia e la morte, dall’altra i tentativi disperati di medici e politici nel trovare un vaccino efficace al virus e controllare mediaticamente e militarmente la situazione civile. Il collante tra le due linee narrative è assunto dal ruolo ambiguo del blogger interpretato da Jude Law, forse un ciarlatano forse l’unico in grado di sbandierare le malefatte delle industrie farmaceutiche.
Soderbergh in Contagion vorrebbe raccontarci tante cose sulla nostra contemporaneità. La paura del contagio diventa strumento metaforico per riflettere sulla dinamiche relazionali e comunicative di un mondo senza più barriere e dove paranoia e perdita delle certezze sociali si fanno sempre più tangibili. Al regista interessa parzialmente l’affresco di un’umanità ferita a morte, composta da storie individuali che anziché vivere di vita propria si inseriscono nell’incedere teso, e privo di un centro, tipico dei disaster movie. È un mondo al collasso e senza via di fuga quello che ci viene raccontato in Contagion. D’altronde lo stesso Soderbergh – che nel film sembra a tratti divertirsi sadicamente nel far scomparire dalla scena le sue star – è sempre stato in un modo o nell’altro il virus infettivo di Hollywood, filmaker-produttore-operatore ossessionato dalla schizofrenica mescolanza, a volte risolta in una dicotomia netta, tra industria e autorialità. Il controllo della forma da parte del regista americano in Contagion porta a una inconsueta attenzione alla precisione dei ritmi narrativi e alla rapidità di montaggio (trascinata dai ritmi musicali del solito Cliff Martinez, che in questo caso non arrivano però ai sublimi ipnotismi del sottovalutato Solaris), ma comportano un distacco emotivo, che a più riprese raffredda il materiale. Unica eccezione la scena finale tra Matt Damon e la figlia, in cui il pianto liberatorio del padre e il ballo sulle note di All I want is you della ragazza assieme al giovane amico fanno finalmente esplodere tutta l’emozione che il virus soderberghiano fino all’ultimo tiene ostinatamente in incubazione.