Cosa dirà la gente, di Iram Haq

Una ragazza norvegese d’origine pachistana si muove, come il film, tra due dimensioni, occidente e oriente, tradizione e futuro, sotto lo sguardo di matrice autobiografica di un padre frammentato

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Come se fosse un corpo a parte, un abstract, nella prima scena di Cosa dirà la gente della regista norvegese Iram Haq, c’è tutta la dialettica e anche la forza del film. Una sera qualsiasi, un padre che spegne le luce di casa. Anche se lo vediamo per la prima volta, sappiamo già che si tratta di una fissa, un rituale quotidiano: uno sguardo intorno, il controllo di ogni stanza, poi il buio. L’azione quasi coreografica del padre si confronta con l’immagine di una ragazza che corre disperata per le strade della periferia di Oslo, contro l’orologio, in direzione di casa. Mentre lei si fa strada, lui spegne una luce. Sono padre e figlia, che si muovono in direzione opposte, che nel loro scontro sono anche in equilibrio, la luce e il buio di una stessa realtà. E che ormai finiranno per incontrarsi, quando lui spegnerà l’ultima luce di casa, quella definitiva, quella della stanza dove già dorme sua figlia, ancora col fiato agitato e nascosta sotto le lenzuola.

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La ragazza che corre è Nisha (Maria Mozhdah), norvegese d’origine pachistana che a 16 anni si muove quotidianamente, e con certa naturalità, tra due dimensioni: là fuori, all’aria aperta, con curiosità adolescente, amici e vita sociale spensierata, un primo e fugace amore. Poi, nel privato, dietro le tende sempre chiuse, la perfetta figlia pachistana, attenta alle tradizioni della famiglia, discreta, pudica, sotto lo sguardo silenzioso ma infrangibile del padre, Mirza (Adil Hussain), che non nasconde la sua predilezione per la figlia. Lui vive anche un conflitto interno, una frammentazione di se stesso: vuole proteggere Nisha dall’esterno, dai vizi del mondo occidentale, dal giudizio e gli sguardi degli altri, dalla dimensione dove lui stesso l’ha portata e dove, paradossalmente, vuole che lei porti avanti tutti le suoe risorse e capacità. Ma quando un corpo alieno entra nella dimensione sbagliata – il ragazzo norvegese di Nisha, beccato per caso nella stanza della ragazza – l’equilibrio si rompe e per Mirza c’è una sola via di uscita: portare la figlia, contro la sua volontà, in Pakistan. Sperando che la salvezza si trovi nell’origine.

La storia di Nisha è anche un frammento della storia di Iram Haq, norvegese d’origine

pachistana che a quattordici anni fu rapita dai suoi stessi genitori e costretta a vivere per un anno e mezzo in Pakistan. L’ossessione della regista per ritrovare se stessa e, forse, avere il controllo di una realtà sfuggente attraverso la manipolazione dell’immagine, inizia già dal suo primo lungometraggio, I am yours (2013), racconto più sottile su una ragazza di famiglia pachistana a Oslo che deve allontanarsi dalla tradizione per poter andare avanti. Più che specchiarsi, costruirsi sulla ricerca di un origine, il riscatto di una problematica sociale, una frustrazione o qualcosa di irrisolto, il cinema di Haq sembra muoversi attraverso l’energia castrante ma allo stesso tempo vitale di un amore impossibile, incompiuto; il rapporto tra padre e figlia, tra origine e futuro, tradizione e mobilità, tra due che ancora non riescono a riconoscere bene dove si trovano, ma devono continuare a espandersi, a occupare lo stesso spazio, sapendo che c’è posto soltanto per uno di loro.

Così come Nisha, come Mirza, come la stessa Iram Haq, sembra che Cosa dirà la gente sia ancora alla ricerca di un posto al mondo, intrappolato tra due mondi possibili. Mentre si muove nella sua propria dimensione, si percepisce come un pezzo ancora alieno, un corpo organico in costante mutazione. Come se fosse un’immigrante in una città ignota, uno straniero che spinto dalla volontà di modellarsi e adattarsi al suo nuovo ambiente, perde un po di se stesso, un po’ della sua anima, in ogni passo verso l’appartenenza definitiva. Se all’inizio si intravede una proposta contemplativa, di una bellezza discreta e autentica che segue un certo flusso primitivo – dove la regista osserva, si accoppia al movimento e lascia ai personaggi, all’immagine e alla storia di respirare e brillare di luce propria – poi comincia a perdersi nell’intento di diventare un’altra cosa, facendo un giro vertiginoso verso il dramma esacerbato, per mettere in evidenza un sentimento, un disagio, un’angoscia che già si manifestava con tutta la sua forza in modo naturale. Perdendo un po’ l’istinto dietro la volontà di sottolineare una tragedia – nel senso di genere, e pure d’atto mancante, di destino incompiuto – diluendo l’essenza primaria in colori, forme, personaggi stereotipati e azioni ripetitive.

La storia che Iram vuole condividere, attraverso Nisha, attraversa la sua voce e la voce nascosta di tante altre come lei, si racconta a se stessa e trova la forza nella sua propria entropia. E anche se prova a esprimersi in un’altra lingua – come nella scena dell’incontro con l’assistente sociale norvegese e i suoi tentativi per trovare un consenso tra Nisha e i suoi genitori, attraverso la traduzione irraggiungibile di un concetto, di una cultura – Cosa dirà la gente tende a rendersi lost in translation, a perdersi nella volontà di farsi capire. Quando nel suo proprio linguaggio, nella sua urgenza, nella sua tragica bellezza, nella sua natura e senza l’aiuto di un interlocutore alieno, avrebbe potuto già dire tutto.

 

 

 


Titolo originale: What people will say

Regia: Iram Haq
Interpreti: Maria Mozhdah, Adil Hussain
Durata: 106′
Origine: Norvegia, Germania, Svezia, 2017
Distribuzione: Lucky red

 

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