Cos’è la Streaming Justice?

Spotify ha concluso il 15 marzo un accordo con cui, per 310 milioni di euro, sarà il nuovo sponsor del Barcellona. Una cifra che non ha mai pagato nemmeno per tutti i suoi artisti insieme

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Il 15 marzo è la data storica scelta da Spotify e dall’FC Barcelona per annunciare la partnership tramite la quale la piattaforma musicale diventerà il principale sponsor di uno delle squadre di calcio più importanti al mondo. Per circa 310 milioni di euro non solo il suo simbolo apparirà sulla maglia blaugrana, ma il nome stesso del suo storico stadio, il Camp Nou, sarà preceduto dal nome della piattaforma di streaming. Una manovra con la quale Spotify cerca di mettersi alle spalle il polverone sollevato da Neil Young nella sua crociata contro Joe Rogan. Eppure, questo accordo riapre una questione che su cui aveva attirato l’attenzione David Crosby proprio commentando la scelta del suo collega ed ex-compagno di band: Spotify quanto paga gli artisti?

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Intervistato dalla NBC, dopo aver spiegato il rifiuto di trovarsi nello stesso spazio digitale di Rogan, Crosby si lascia scappare che era in rotta da tempo con Spotify perché non paga abbastanza. La giornalista coglie la palla al balzo e gli chiede quanto guadagnerebbe se ascoltasse per una sera in ripetizione un suo pezzo. “Se lo facesse per un anno intero potrei offrirle una tazza di caffè”. Una risposta meno esagerata di quanto si possa pensare: Trichordist ha calcolato che ogni riproduzione frutta $0,0034. Una cifra già di per sé irrisoria e che lo diventa ancor più quando si considera il sistema con cui Spotify paga gli artisti. Il sistema è detto del one big pot, in cui tutte le ricchezze distribuibili agli artisti (per ora circa l’11% dell’intero fatturato di Spotify), fetta che forse vengono divise in base alla popolarità delle tracce. Il che vuol dire che se anche un utente ascoltasse solamente un artista per tutto l’anno, la quantità di soldi a lui destinata dipenderà dalla popolarità generale dell’artista.

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Nel suo blog, a fine 2021, il dj Gabriel Teodros la riassume così: “Immagino di dire al me più giovane che un giorno venderai 15 CD a una persona che lo condividerà con 23 200 persone in 112 paesi che li sentiranno 121 800 volte per un totale di 5400 ore in un anno. E quella persona, alla fine dell’anno, ti farà una grafica col suo nome sopra e ti chiederà di celebrare pubblicamente i 150€ che hai guadagnato”. Sono numeri che fanno riflettere, specialmente se messi accanto alla cifra dell’operazione col Barcellona. Riprendendo proprio quei 310 milioni di dollari, nemmeno l’artista più pagato dalla piattaforma, ossia Drake, è mai stato pagato così tanto a fronte dei suoi quasi 50 miliardi di riproduzioni totali. Per arrivare a quella cifra, con la media per riproduzione sopra riportata, dovrebbe almeno raddoppiarle.

Non è, comunque, Spotify l’unica isola infausta nel mare digitale: perché è l’intero arcipelago di piattaforme streaming a giovare di sistemi nei quali gli autori dei contenuti sono nel migliore dei casi l’ultima delle preoccupazioni e nel peggiore delle vacche da mungere il più possibile. Il caso di YouTube è eclatante in questo senso: la sua divisione Content ID, il sistema software automatizzato con il quale YouTube controlla automaticamente il diritto d’autore dei video, genera un flusso di streaming e riproduzioni pari al 51% dell’intero mercato, a fronte di un ricavo del solo 7%.

Come rispondono le istituzioni a questo enorme divario di valore? L’Unione Europea ha varato nel 2019 una nuova direttiva in materia di copyright che in pratica segue le procedure già da anni applicate nel metaverso Google. Vengono, infatti, imposti i “migliori sforzi” alle piattaforme per bloccare i contenuti illeciti qualora non si fosse trovato un accordo con i detentori dei diritti e in presenza di un registro di opere da tutelare consegnato dai detentori e in assenza del quale la piattaforma non è responsabile. La procedura, però, rischia da un lato di dare ancor più potere alle grandi società di intermediazione come la SIAE, al cui interno le decisioni non sono sempre prese con un occhio ai piccoli produttori e artisti, ma anche di portare a un’eccessiva censura. Infatti, cosa comporti una “chiara violazione” dei diritti d’autore dovrà essere deciso da ogni detentore dei diritti e difficilmente gli algoritmi sono in grado di stabilire quali contenuti comportino un’eccezione, come ad esempio quella di critica.

In tutto questo, ci sono altri ostacoli, il più importante dei quali è che la direttiva europea non è vincolante, deve essere trasformata in legge dai singoli parlamenti, con un passo claudicante come si può vedere dal sito di tracciamento Communia. Di fronte a queste lungaggini, l’insofferenza cresce da parte degli artisti. Negli Stati Uniti è stata lanciata una campagna per la Streaming Justice guidata dalla Music Workers Alliance, mentre crescono servizi alternativi come Bandcamp (da poco acquisita da Epic Games, con preoccupazione degli artisti) e Soundreef, quest’ultima diventata ai più nota nel 2016 quando Fedez ha deciso di approdarvi, lasciando la SIAE. Certo, il divario è ancora molto ampio e la strada da fare tanta (con qualche sentiero incerto, ma forse percorribile come quello delle NFT), ma forse è il caso che le piattaforme di streaming comincino a tremare.

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