"Credo che un film sia come fare un viaggio, il nostro lavoro è un work in progress" – Intervista a Massimo Gaudioso

E' uno degli sceneggiatori emergenti del cinema italiano, premiato con il David di Donatello nel 2003 per "L'imbalsamatore". Massimo Gaudioso è uno degli ospiti dei “Corsi di Cinema di Sentieri Selvaggi”, venerd' 27 gennaio 2006 al Detour. Questa è una bella intervista rilasciata a “Nuova Agenzia Radicale”

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Massimo Gaudioso è uno sceneggiatore fra i più apprezzati nel panorama del cinema italiano degli ultimi anni; tra i suoi lavori più celebri ricordiamo "L'imbalsamatore", con il quale ha vinto il David di Donatello nel 2003, e "Primo amore".
I suoi esordi cinematografici risalgono al 1995 quando, insieme ad un gruppo di amici, realizza il cortometraggio "Il caricatore" (diventato poi un lungometraggio) che vince al Festival di Locarno sia il premio della giuria, sia quello del Pubblico.
La conversazione che segue offre una panoramica piuttosto ampia, e diremmo sorprendente, sulla concezione cinematografica e sul modo di operare nel processo creativo e produttivo di questo sceneggiatore sicuramente sui generis.

Il tuo primo film, "Il caricatore"(1996), ti vede impegnato anche nelle insolite vesti di regista (insieme a Eugenio Cappuccio e Fabio Nunziata).
Da allora, come sappiamo, il tuo ruolo si è focalizzato su quello dello sceneggiatore.
Come mai il tuo esordio è avvenuto dietro la macchina da presa?


Io ho sempre avuto un'idea molto romantica del cinema. Prima che regista e sceneggiatore, sono stato uno spettatore appassionato. Fin da piccolo vedevo i film e pensavo che si potesse fare tutto da soli, essere allo stesso tempo interprete, ideatore, regista e produttore. Quando ho cominciato a lavorare, ho capito che non era così.
C'erano delle regole, un grande impianto, dei ruoli. Questa cosa mi aveva molto avvilito.
E allora, dovendo per forza scegliere, ho scelto la parte ideativa.
Dopo tanti anni di gavetta e di apprendistato nel campo della televisione e della pubblicità mi stavo rassegnando anche se dentro di me non ho mai rinunciato all'idea che avevo.
In quegli anni poi fare un film in Italia era un'impresa titanica.
Poi sono successe due cose: tangentopoli e il boom dei cortometraggi. A causa della prima, nonostante avessi un ruolo, non avevo più lavoro, mentre grazie alla seconda si apriva finalmente uno scenario impensabile qualche anno prima: fare un film con pochi soldi e con mezzi modesti, senza dovere fare la solita trafila, ovvero, portare in giro una sceneggiatura o chiedere un finanziamento allo stato o cercare qualche raccomandazione o essere figlio di qualcuno (e se non conoscevi nessuno, come me, erano cavoli amari).
Finalmente trovai due amici che avevano le mie stesse idee. Avendo ognuno di noi una certa esperienza, ci sembrava fosse arrivato il momento di dimostrare le proprie capacità, e perché non farlo con un corto?

"Il caricatore" poi è diventato un lungometraggio.

Sì, però noi siamo partiti dal cortometraggio. E la storia che volevamo raccontare era proprio quello che avevamo vissuto e cioè: l'impossibilità di fare un film. Ci siamo autoprodotti per farlo. Il corto è costato meno di quattro milioni, avendo girato in un formato, 16mm in bianco e nero, che tra l'altro ci sembrava idoneo alla storia che volevamo raccontare. Abbiamo investito circa un milione a testa, compreso il direttore della fotografia, dicendoci che tutto quello che avremmo guadagnato ce lo saremmo divisi tra noi. E ce l'abbiamo fatta, grazie ai premi vinti in diversi festival importanti, che ci hanno anche permesso di farci conoscere.
In seguito Gianluca Arcopinto ci ha proposto di fare un film. E siccome la storia del corto ci sembrava ricca di altri aneddoti e di cose curiose che valeva la pena di raccontare abbiamo deciso di allungare il corto sviluppando la storia di questi tre amici che hanno un sogno e non riescono a realizzarlo.

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Il film è costato relativamente poco, intorno ai quattrocento milioni. Avete trovato dei finanziamenti?

Abbiamo fatto una società con Gianluca, la Boccia film, proprio come quella che esisteva nel corto. Noi ci abbiamo messo il corto e il nostro lavoro. Gianluca ci ha messo la sua produzione e trecento milioni avuti dalla prevendita dei diritti televisivi.

Hai accennato alla difficoltà dei giovani nel proporsi, nel farsi conoscere.
Anche oggi sembra che la situazione per chi vuole fare cinema non sia molto cambiata. Non è così?


E' abbastanza vero. Anche se devo dire che rispetto al passato la situazione è molto migliorata. In dieci anni c'è stato un salto notevole. I motivi sono diversi, per primo quello tecnologico. Prima bisognava mettere insieme la cinepresa, la pellicola, la troupe e molto altro ancora. Oggi, con il digitale e la qualità ottima che ti fornisce questa tecnologia, puoi prendere la telecamera e andarti a fare il film con i tuoi amici. È una pratica che si sta diffondendo molto. Ma è cambiato anche il ruolo della televisione e delle istituzioni, condizionate dall'attenzione che il pubblico ha rivolto ai cortometraggi.
È un fenomeno questo nato prima all'estero e poi in Italia. Dagli anni '80 agli anni '90, cioè quando io ho cominciato, vi è stato un prosperare di festival dedicati ai cortometraggi. Si è creato un terreno fertile per scambiare idee, per proporsi e per farsi vedere.
Direi che è diventata quasi una moda, al punto che anche la Rai e Mediaset hanno deciso di investire in questo settore. Ora il fenomeno si è andato un po' attenuando, forse proprio perché si è istituzionalizzato, però è cresciuta la consapevolezza, soprattutto da parte dei ragazzi, che fare cinema è possibile.

Si può immaginare un futuro con la tecnologia digitale anche per i lungometraggi?

Secondo me sì. Proprio di questo stavamo discutendo tempo fa all'Api (Associazione Produttori e Autori Indipendenti) e molti dei miei colleghi registi e sceneggiatori sentivano la necessità di cercare vie alternative all'attuale sistema di produzione dei film; alcuni hanno addirittura sostenuto che bisognerebbe chiedere alle istituzioni, e secondo me questa è una cosa un po' esagerata, di stabilire un budget annuale da destinare ai film in digitale.
L'ultimo esempio in questa direzione è rappresentato da Davide Ferrario, un regista bravo e affermato, che al primo mezzo flop si è trovato a dover ricominciare quasi daccapo.
Immagino sia stato molto difficile anche per uno come lui andarsi a proporre con un film e trovarsi magari di fronte allo scetticismo di qualche burocrate solo perché gli ultimi lavori non "hanno fatto pubblico". Comunque sia, Davide Ferrario ha scelto d'investire i propri soldi producendo quello che sarebbe diventato "Dopo mezzanotte".
Secondo me questa pellicola è emblematica per quanto riguarda il futuro del digitale, è una sorta di paradigma a cui bisogna guardare con molto interesse.
Le ragioni sono diverse e comunque vanno identificate nel fatto che Ferrario ha operato pensando ad una storia che tenesse conto del mezzo, ha ottimizzato le riprese, ha preparato prima il film con tre soli attori, ha girato tutto o quasi in un ambiente, il Museo del Cinema, e in questo modo ha reperito anche dei soldi per farsi finanziare dalla Torino Film Commission, riuscendo a fare un ottimo prodotto. Non solo.
La prima volta che ha presentato il film lui non lo aveva ancora trasferito in pellicola.
Quando è stato selezionato al Festival di Berlino e pensava di doverlo per forza fare gli hanno detto che nella capitale tedesca – che ha sale tecnologicamente più avanzate – poteva proiettarlo a una qualità altissima direttamente in digitale.
Così ha potuto presentare il film senza doverlo trasferire subito in pellicola (operazione che richiede molti soldi). Cosa che ha fatto tranquillamente dopo il successo ottenuto al festival e dopo averlo venduto in tutto il mondo per poterlo finalmente mostrare nelle nostre sale, che non sono ancora attrezzate per il digitale come quelle di altri paesi europei .

Come sono i tuoi rapporti con le case di produzione e distribuzione?

Adesso, in realtà, ho la fortuna, lavorando con Matteo (Garrone, ndr), di aver costituito una piccola squadra con grandi spazi di autonomia. Questo modo di lavorare in un team affiatato è una cosa nella quale ho sempre creduto, già dai tempi de "Il caricatore", e penso di essere un antesignano di questa formula produttiva; vale a dire fare gruppo senza pensare troppo di essere assistiti da qualcuno, credendo che, se proprio ci dev'essere, l'intervento dello Stato o di un eventuale finanziatore possa avvenire in una fase successiva; il modus operandi nel quale credo parte da un'idea e soprattutto da una situazione di gruppo dove ognuno ha una funzione ben precisa.
Naturalmente all'inizio il guadagno non c'è, ma perlomeno investi su te stesso, sulle tue idee e non al servizio di qualcuno. Ultimamente ho anche lavorato in situazioni produttive più tradizionali e mi sono trovato ugualmente bene, anche perché c'era un rapporto professionale ben definito. Ma potendo scegliere…

Ma le ingerenze della produzione ci sono comunque poi sul prodotto finale?

No, le ingerenze non ci sono. Hai una maggiore libertà produttiva in questo modo perché puoi fare quello che ti pare. Poi sarà il pubblico a giudicare se quello che hai realizzato fa schifo oppure no. Mi sembra un modo molto democratico per creare qualcosa.

Tu parli di lavoro democratico e di gruppo. Sembrerebbe in qualche modo risolta l'antica questione dei ruoli e delle competenze che spesso vede lo sceneggiatore in posizione subalterna rispetto al regista.
Quanto c'è di tuo nella regia e quanto della regia nella sceneggiatura?


Quando ho cominciato non riuscivo a inquadrarmi come sceneggiatore o come regista, pensavo di poter fare un po' l'uno e un po' l'altro. Questo l'ho verificato successivamente anche con Matteo Garrone, un regista che partecipa alla sceneggiatura e suggerisce tantissime cose. Matteo pensa innanzitutto all'immagine e poi al racconto; quindi capita spesso che lui suggerisca delle immagini e io un intreccio. Ma non è sempre così. Anzi, è lo stesso Matteo a volere che io partecipi a tutto il processo realizzativo di un film. Per questo, se posso, seguo le riprese. Anche perché, siccome Matteo gira le scene in ordine cronologico ed è una persona che si lascia trasportare dalle emozioni date dal set, dagli attori, dall'ambiente, capita che i dialoghi e perfino intere scene vengano modificate.
Dunque la mia presenza diventa molto utile. E poi credo che un film sia come fare un viaggio, il nostro lavoro è un work in progress che si realizza prima, durante e dopo le riprese; per questo è indispensabile che ci siamo tutti in ogni momento.
La sceneggiatura è la base del film, e dev'essere solida, ma poi ci sono le riprese che secondo me sono una specie di riscrittura, fatta a seconda di dove si posiziona la mdp e di quello che si decide di girare.
E poi il film viene riscritto ancora in sala di montaggio. E lavorando con Matteo succede spesso una cosa assai buffa: il montatore, Marco Spoletini, cambiando la posizione di una scena diventa sceneggiatore, e viceversa io divento montatore suggerendo come legare quella determinata sequenza o quell'espressione a un'altra.

Una delle cose più interessanti nei tuoi film e in quelli di Garrone è data dalla scelta del soggetto: partite da uno spunto reale, da un fatto realmente accaduto, per poi aggiungervi elementi del tutto nuovi e fantasiosi.
In particolare le atmosfere, soprattutto ne "L'imbalsamatore", risultano essere molto suggestive, quasi irreali. Quindi vi è una sorta di unione fra elementi reali e immaginari. Condividi questa visione?


Sì, all'inizio della sua carriera Matteo, partendo da personaggi e ambienti che conosceva, si lasciava trasportare nella storia dai suoi protagonisti.
Poi quando ha cominciato a lavorare con me ha deciso di provare a partire dal racconto, sempre rimanendo fedele a quell'idea che vede la realtà come l'ispiratrice fondamentale del lavoro. Così abbiamo preso delle storie dalla realtà e successivamente ci siamo divertiti ad accostarle a un genere cinematografico o letterario a cui potevano corrispondere, come ad esempio il "noir" e la fiaba per "L'imbalsamatore", poiché ci piaceva l'idea che i personaggi della realtà rimandassero a degli elementi fantastici o mitologici.
Mano a mano che poi incominci a delineare i personaggi – e anche in questa fase Matteo mi coinvolge molto facendomi scegliere con lui i protagonisti e determinate ambientazioni – ti accorgi che questi con il loro modo di essere, di pensare, di parlare, determinano alcune scelte di sceneggiatura, portandoti a modificare la storia originaria in funzione di quello che sono realmente. È un processo molto bello e coinvolgente.

Come vi siete conosciuti con Matteo Garrone?

Con Matteo ci siamo conosciuti perché lui aveva visto il cortometraggio "Il caricatore" e io avevo visto "Silhouette".
Poi per uno strano scherzo del destino ci siamo trovati dopo un anno ad avere fatto un percorso simile: noi avevamo fatto diventare il nostro cortometraggio un "lungo" grazie ad Arcopinto e lui aveva fatto lo stesso grazie a Nanni Moretti.
Siamo andati tutti e due al festival Cinema Giovani di Torino, noi fuori concorso, lui in concorso.
Inoltre, conoscendoci, abbiamo scoperto di avere molte cose in comune: tra tutte il modo di fare cinema e le idee su come approcciare produttivamente un film.
Poi è successa una cosa molto curiosa: sia noi de "Il caricatore" che Matteo eravamo stati chiamati dall'Atac di Roma per fare dei cortometraggi sul tram.
All'inizio grande entusiasmo e progetti fantastici.
Poi quando entrammo nel concreto, essendoci pochi soldi, i tre cortometraggi diventarono uno solo. Quelli dell'Atac avevano deciso di farlo fare soltanto a noi de "Il caricatore".
La cosa mi sembrò ingiusta e così proposi a Matteo di fare il cortometraggio insieme a me e a Fabio Nunziata, visto che intanto Eugenio s'era tirato indietro. Io scrissi la storia prendendo spunto da un racconto di Massimo Bontempelli, Matteo fece l'operatore, proponendo me come protagonista, e Fabio fece il montaggio, ma sempre affiancandoci l'uno con l'altro. Quella in effetti è stata la prima volta che abbiamo lavorato insieme.

…E che fine ha fatto questo lavoro?

Questo cortometraggio, che si chiamava "Un caso di forza maggiore", e che era stato girato in 16mm, però a colori, ce l'ha Matteo. È stato anche presentato a qualche festival, ma è di proprietà dell'Atac. Sarei curioso di rivederlo perché secondo me era molto divertente, assurdo.

C'è un tipo di cinema attualmente che suscita in te particolari emozioni?

E' difficile dare una risposta. In questo momento ho un po' di distacco dal cinema, spesso ci vado e non mi piace quello che vedo. Sarà perché lavorandoci si diventa più critici, ma sento che spesso le storie non hanno più quella forza che potevano avere i film che ho amato e che mi hanno fatto avvicinare a questo mestiere.
Penso che il cinema realmente innovativo di questo periodo sia quello fatto da quei paesi che, proprio perché raccontano paesaggi, storie e personaggi inediti, hanno una forza in più rispetto ad altri. Penso al cinema iraniano di qualche anno fa, oppure al cinema asiatico, che oltretutto è ricco di una cultura visiva e di una proprietà del linguaggio di cui noi non immaginavamo neanche l'esistenza. Le storie e i personaggi hanno quella forza e quella freschezza che poteva avere il Neorealismo in Italia o il Free Cinema degli anni '60.

Ad esempio film come "Ferro 3 – La casa vuota" o "Primavera, estate, autuno e inverno e…ancora primavera" hanno una sceneggiatura assai minima e privilegiano l'aspetto figurativo, riuscendo a trasmettere emozioni senza tante parole.

C'è comunque un pensiero forte dietro. Ho visto i film di Kim Ki-Du e sono delle pellicole che hanno una energica impronta visiva, ma anche un pensiero che si rifà a un'idea molto personale del cinema. Questo è un modo di operare che trovo molto moderno, che mi piace. Nel cinema americano, ad esempio, ora mi viene in mente solo Tarantino, altrimenti elementi di grande novità e di spunto non ne vedo.

Credi che sia necessario che il cinema assurga anche un ruolo fortemente sociale, che sia soprattutto uno strumento di denuncia delle iniquità della società, oppure deve rimanere prevalentemente intrattenimento, cioè che racconta solo "storie"?

Io non farei delle separazioni così nette. A me piace tutto il cinema, quello che ha un impegno sociale e quello d'intrattenimento. Il cinema nel suo specifico ha già una funzione sociale, è qualcosa che aggrega, che comunque ti fa vedere una realtà diversa, che ti dà la capacità di pensare, di sognare, di emozionarti.
Che poi nei contenuti vi sia un impegno con tematiche importanti e quindi dai risvolti sociali, perché no, l'importante comunque è che la vicenda conservi dei personaggi capaci di emozionarti e di portarti con le loro vicende dentro una storia.

Cosa ne pensi di quel fenomeno che in questo periodo sta prendendo sempre più piede nelle sale, parlo del docu-film, ossia quella sintesi fra documentario e racconto di fiction?

Anche questa secondo me è una cosa che c'è sempre stata nella storia del cinema, se vi riferite, come credo, a Michel Moore e agli altri. Basti pensare che il cinema nasce con i fratelli Lumière.

"Primo amore" da un punto di vista della critica ha avuto una vicenda un po' paradossale.
In Italia il film ha avuto un discreto successo mentre invece in Europa, soprattutto in Germania, vi sono state diverse critiche. Come mai?


A Berlino, alla fine della proiezione del film, ci siamo resi conto che il nostro lavoro era stato accolto con una certa freddezza. Vedendo le immagini di "Primo amore" in quel contesto abbiamo scoperto di aver raccontato una vicenda che aveva molte analogie con la più tragica storia tedesca. Soprattutto nella parte finale.
Un personaggio come quello di Vitaliano con il cranio rasato e gli occhi celesti come il ghiaccio, che tiene segregata in casa una donna e la costringe a dimagrire fino a farla diventare pelle e ossa, il forno, il fuoco che brucia, l'oro come simbolo di purezza, essenza di quello che veramente conta. Beh, insomma, c'erano tantissimi elementi che, senza volerlo, evocavano in altre persone qualcosa d'inaspettato.

State lavorando su qualcosa di nuovo?

Sto facendo il nuovo film di Matteo che già ha una vita molto travagliata. Abbiamo cambiato cinque volte storia, anche perché a lui l'esperienza di "Primo amore" deve averlo toccato molto.  Siamo partiti con la voglia di raccontare una vicenda finalmente leggera ma ogni volta finivamo come sempre su qualcosa di drammatico. Non c'è niente da fare, cominciamo a scrivere, partiamo con le migliori intenzioni e poi a Matteo chissà cosa succede dentro… Ormai mi sto convincendo che anche se riuscissimo a scrivere una storia molto divertente poi durante le riprese diventerebbe qualcos'altro.
Eppure lui ha la capacità di rendere leggere delle situazioni tristi o squallide! Mah.
Però adesso non vogliamo fare un'altra storia cupa, e il fatto di non essere partiti da un episodio di cronaca nera è già un buon segno.
In questo momento abbiamo preso spunto da un libro. Però non posso dirvi nemmeno quale è, perché domani l'idea potrebbe cambiare per la sesta volta.

A quando invece una tua performance da regista?

Ho avuto la proposta di girare un film che avevo soltanto scritto su commissione per un produttore.  La storia si svolge a Napoli, la mia città, luogo con il quale come tutti i napoletani, ho un rapporto di odio e amore. Questa proposta mi ha messo molto in difficoltà perché affrontare una storia ambientata a Napoli, con tutta una serie di elementi lontanissimi da quella che è la mia idea di cinema, un po' mi spaventa.  Io non voglio fare il regista tanto per farlo, ma solo se sento che si tratta di una storia che mi appartiene totalmente. Allo stesso tempo mi piacciono le sfide, e se vedo che ci sarà lo spazio per calzarmi addosso la storia allora accetterò.  Mi stuzzica la possibilità di fare un film, di mettermi dietro la macchina da presa e cominciare un nuovo viaggio. Perciò mi trovo tanto bene con Matteo perché partiamo e ogni volta è un'esperienza diversa.

Flavio Bianchi e Sonia Arlacc

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Da Notizie radicali 1/4/2005


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