Creed, di Ryan Coogler

La sensazione in Creed, spin off della saga di di Rocky è quella di trovarsi davanti a un grande abbraccio sentimentale ancor prima che cinematografico.

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In tempo di remake, reboot, sequel e spin off l’unico centro possibile diventa la memoria, la fedeltà a un modello che parta innanzitutto dai sentimenti, dalle storie dei padri che diventano le stesse dei figli, dalla fatica di vincere o perdere, dal ring da sempre metafora di lotta e sopravvivenza. Già, il ring. Ci ritorniamo ancora una volta insieme a colui che più di ogni altro ha saputo viverlo e raccontarlo quel quadrato. Dalla New Hollywood a oggi Sylvester Stallone è ancora lì a lottare per la vita e a fornire consigli di sopravvivenza. Monolitico. Totemico. Assoluto. Il trittico Rocky Balboa/John Rambo/Expendables aveva già raccontato la resistenza al Tempo, il crepuscolo dell’idolo che diventava romanticamente poetica. E il corpo stanco e sincero di Stallone che si faceva trasparenza autoriale vertiginosa tra cinema e vita. Ryan Coogler parte da qui. Ha bisogno del suo vecchio eroe bianco per legarlo una volta per sempre al pubblico che forse lo ha da sempre amato di più, quello delle classi basse e dei figli degli immigrati. Riconnette quindi Balboa alla grande comunità afroamericana e rilancia il Mito della rivalità/amicizia tra lui e Apollo Creed – quest’ultimo probabilmente uno degli antagonisti più carismatici della storia del cinema senza che ce ne fossimo mai resi veramente conto. Racconta a modo suo il classico coming of age, in chiave “black”, di un ragazzo degli anni 2000 – quindi più confuso, “benestante” e multimediale – che trova l’unica via del riscatto attraverso i guantoni.

Il ventinovenne Coogler è giovane e decisamente acerbo, ma con lui la vecchia America riesce forse a sposarsi con la nuova. Quella in cui le comunità emarginate con i suoi eroi da raccontare non sono più italoamericane ma appunto nere, forse finalmente pronte per un proletariato epico mainstream. Certo qui il regista di Fruitvale Station ha bisogno del “padre” Stallone, del suo sacrificio, della sua alleanza e forse del suo Oscar per portare la parabola del giovane Creed in porto. La storia è quasi un remake del primo Rocky, ma con elementi culturali e musicali diversi. Adonis è il figlio di Apollo, cresciuto tra riformatorio e quartieri alti. Non ha mai conosciuto il padre, ma su youtube vede i vecchi filmati dei suoi incontri. In una grande scena iniziale assiste a uno dei match tra Balboa e Creed al Madison Square Garden, si alza in piedi e comincia a mimare i pugni mentre il proiettore gli riversa addosso le immagini del combattimento. Il nuovo Creed per diventare eroe deve farsi sommergere dal cinema e diventare quel Cinema. Ecco allora che Adonis (Michael B. Jordan) molla un lavoro sicuro per fare il pugile professionista ma con un altro cognome. Si trasferisce a Philadelfia. Ha bisogno dello zio Rocky, per farsi allenare e prenderne il posto. Rocky dal canto suo è vecchio, ormai solo, forse è vicino alla fine. Gli serve un ultimo sussulto prima di chiudere il cerchio. Il punto è capire se il giovane Creed ha la stoffa che avevano lui e Apollo. E qui il film è molto interessante perché tra le righe racconta un rispecchiamento perfetto tra il pugile di colore e il regista Coogler. Entrambi devono dimostrare a loro stessi e agli altri di meritare la tradizione a cui ambiscono. Devono allenarsi per essere allo stesso livello dei grandi – Apollo per Adonis, il cinema di Stallone per Coogler.

Il fascino di Creed sta in questo sforzo, in questa richiesta d’amore e d’attenzione dei giovani verso i grandi. Il gesto è difficile, anche perché misurarsi con il mito di ieri per le generazioni di oggi è la madre di tutte le sfide, forse la più complessa e spietata. La sensazione è però quella di trovarsi davanti a un commovente abbraccio sentimentale ancor prima che cinematografico. Forse l’altra faccia del fenomeno Star Wars. Il risveglio di una Forza diversa. Pura.

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