Da dove vengo io – Sentieri Selvaggi intervista Simone Sarasso

Con Da dove vengo io, primo volume della lunga saga Cent’anni, edita da Marsilio Editori, Simone Sarasso racconta le avventure di quattro giovani anti-eroi destinati ad entrare nella Storia.

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Dopo aver attraversato i momenti più bui degli ultimi 50 anni di storia italiana e aver raccontato gli aspetti più sanguinosi dell’impero romano, lo scrittore Simone Sarasso ha deciso di iniziare una nuova epopea, narrando un secolo di criminalità organizzata newyorkese. Con Da dove vengo io, primo volume della lunga saga Cent’anni, edita da Marsilio Editori, lo scrittore racconta le avventure di quattro giovani anti-eroi destinati ad entrare nella Storia. Attraverso le parole di Sarasso, infatti, ci ritroviamo catapultati nella dura e affascinante New York degli anni ’20, la stessa di Leone e Coppola, per assistere in prima persona all’implacabile ascesa criminale del saggio Mayer Lansky, del brutale Charlie Luciano, del folle Bugsy Siegel e del leale Frank Costello. Tutti e quattro pronti a diventare i padroni indiscussi della grande Mela. A noi di Sentieri Selvaggi, lo scrittore ha raccontato la genesi di questo progetto e il suo lavoro creativo di narratore noir.

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Il progetto di Cent’anni , con i suoi nove volumi, è un’operazione decisamente ambiziosa per il panorama editoriale italiano. Come si organizza e si affronta un lavoro cosi vasto? Non c’è il rischio concreto di partire forti ma di ritrovarsi in futuro ad “allungare troppo il brodo” e svalutare la storia?

Direi di no, dal momento che questa è, a tutti gli effetti, una maratona, e non una semplice scampagnata. In qualche misura Cent’anni è ciò che voglio scrivere da tutta la vita, ma prima non avevo né il fiato né le gambe. E quindi mi sono allenato, per dieci anni filati. Non è stato un processo del tutto cosciente, ovviamente, ma lentamente ho capito che in quest’opera sarebbe confluito molto di quello che ho studiato, letto, guardato e amato da quando mi occupo di letteratura di genere in maniera professionale. Prima di scrivere anche una sola parola del primo volume, ho immaginato gli archi narrativi (Cent’anni ne avrà tre: la storia dei Quattro che vollero farsi Re, la NY delle Cinque Famiglie con John Gotti al centro della narrazione, e le nuove mafie che arrivano in città dopo il crollo del Muro), e ho stilato una scaletta dettagliatissima, scena per scena. Come dicevo, mi sono allenato, collezionando informazioni per un anno e mezzo, saggiando fiato, gambe e determinazione. Finalmente i piedi sono partiti. E non vedo l’ora di godermi il viaggio.

Oltre ai saggi che citi nella nota finale, ho il sospetto che il tuo lavoro di ricerca sia stato molto più vario. Penso alla perfetta ricostruzione della New York dell’epoca o della vita famigliare e dei legami dei protagonisti. Com’è andata la “pre-produzione” del romanzo?

Ci sono stati (e ci sono), come accennavo, due livelli di studio: uno conscio e uno inconscio. Quello conscio passa attraverso i saggi citati in calce al romanzo e a moltissimo tempo speso negli archivi dei giornali dell’epoca. Quello del Times, soprattutto, fonte inesauribile di particolari che riguardano il vero volto della città che mi ha rubato il cuore. Piccoli accenni a ristoranti e abitudini del newyorchesi di cent’anni fa, Storia e musica, cultura, folklore. Il livello inconscio di documentazione assomiglia a un puzzle, in cui ogni tassello è costituito da immagini, suoni, colori, odori e sapori che, in molti anni, hanno contribuito a formare il mio immaginario. Citando alla rinfusa: i film di Scorsese, gli abiti di scena che Armani realizzò per The Untouchables, i corn-dog- on- a-stick di Cha Cha’s, a Coney Island, il ferro e i mattoni di Brooklyn Heights, i Five Points (di allora e di adesso: dove una volta non c’erano che fango, dolore e la vecchia fabbrica di birra, oggi è un florilegio di funeral house cinesi e scaloppe di pollo annaffiate di pomodoro e mozzarella), Times Square, minuscola e luccicante.

Ultimamente, anche per il grande numero di serial che arriva sui nostri schermi, sembra che non possa esistere la narrativa senza serialità. Dopo la trilogia nera sulla storia italiana e i tuoi romanzi “peplum” (e l’esplicito riferimento a Game of Thrones sulla quarta di copertina) quello della progettualità lunga sembra essere un carattere distintivo della tua opera…

Per dirla con un parolone, credo di essere sempre stato un massimalista. Non alla maniera di Wallace, per carità: quella roba è magica e profonda e io non la so fare. Piuttosto, alla Martin (il Martin di Game of Thrones). Ho sempre sognato di raccontare mondi, di scrivere testi enciclopedici, lunghi e complessi, perché sono proprio quelli che, da lettore, ho sempre divorato. Adoro la completezza, non mi spaventano le distanze, mi piace la Storia e credo che alcune narrazioni meritino respiro per divampare. Le serie TV sono la forma di narrazione popolare contemporanea, e avvincono milioni di telespettatori con meccanismi narrativi di cui la letteratura di genere ha imparato a nutrirsi. Ho scritto cose brevi e magari ne scriverò ancora, in futuro. Ma niente mi dà soddisfazione quanto guardare negli occhi il lettore e dirgli: “Mettiti comodo, il viaggio comincia…”

Da dove vengo ioI protagonisti di Da dove vengo io, pur giovanissimi, hanno caratteri definiti e predominanti che li rendono quasi dei predestinati. La follia di Bugsy, la sofferta lucidità di Meyer e l’istinto spietato di Luciano. Inoltre sono ben radicati nell’immaginario collettivo grazie alla letteratura, al cinema e alla televisione. Io, forse sbagliando, mentre leggevo le loro avventure me li immaginavo con i volti degli interpreti di Boardwalk Empire. Tu come li descriveresti?

A parte Frank (chissà perché, poi?), nella serie HBO li vediamo tutti, e li vediamo da ragazzini. In realtà, da un punto di vista iconografico, io sono molto più legato alle vere sembianze dei quattro che alla loro riduzione cinematografica. Luciano è troppo bello in Boardwalk Empire, Meyer troppo stagno, Bugsy troppo giovane e troppo poco attraente. I caratteri, invece, sono proprio quelli: Lansky lo stoico che scivola lentamente all’inferno, Benny l’assassino, Frank il lavoratore indefesso, Charlie il gran figlio di puttana.

Tornando sull’immaginario in cui il tuo libro si inserisce, dopo aver letto il romanzo, ho sentito la necessità di riguardare diversi film su Lucky Luciano o Bugsy Siegel. Quali pellicole consiglieresti di vedere con la lettura di Da dove vengo io?

Il Padrino, C’era una volta in America, L’impero del crimine e The Untouchables, insieme a Boardwalk Empire credo possano fornire un’estetica di riferimento per potersi orientare senza bisogno d’una bussola nell’universo di Cent’anni.

E’ difficile per un autore trovare l’equilibrio tra il voler rispettare la Storia e la ricerca di un efficiente intrattenimento attraverso la Fiction?

Credimi, per nulla se parliamo di questa storia in particolare. Basta scavare nella vita dei Quattro che vollero farsi Re per imbattersi in una lunga e articolata sceneggiatura hollywoodiana ricca di colpi di scena. All’invenzione ho lasciato un 1%, fisiologico per chi fa il mio mestiere. Il resto della storia non vedeva l’ora di farsi raccontare.

Con il successo di Gomorra e Romanzo Criminale si è tornato a parlare dei rischi della mitizzazione della criminalità. I tuoi “eroi” sono i gangster per antonomasia. Cosa pensi di questo dibattito?

Lo trovo sterile e un po’ superficiale. Il racconto del male è endemico alla letteratura, al cinema, alle storie. Dai tempi in cui le si raccontava intorno al fuoco. E lo scopo del racconto del male è sempre il medesimo: catarsi. In sintesi estrema, si capisce. Ma ci sono anche delle ragioni narrative: i cattivi sono molto più complessi e tormentati dei buoni, vanno incontro a scelte complicate e spesso (fin dai tempi dei miti greci) si dannano per motivi che sulla carta paiono ottimi. Di solito, in termini di complessità e intrattenimento, cattivo batte buono quattro a zero. Pensate ad Anakin Skywalker e a suo figlio Luke. Onestamente, non c’è partita.

James Ellroy è un punto di riferimento sempre presente nella letteratura crime mondiale degli ultimi vent’anni. Hai dichiarato più volte la tua passione per lui. Ora che ti sei affermato come autore ben riconoscibile, qual è il tuo rapporto con i suoi romanzi?

L’ho sempre amato e continuo ad amarlo. Un romanzo come Perfidia è la dimostrazione che il buon vecchio James, dopo quasi quarant’anni di onorata carriera, è ancora in cima alla catena alimentare.

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