Da qui all’eternità, di Fred Zinnemann

Un dramma dell’esistenza che lavora sul corpo attoriale attraverso un linguaggio raffinato che si amplifica nel suo gioco a quattro. Vincitore di 8 premi Oscar tra cui miglior film e regia.

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C’è una difficoltà oggettiva qualora si dovesse scegliere un vero protagonista di questo film. Inizialmente esso sembra protendere verso un dualismo da caserma, semplificato nel binomio Clift-Lancaster. Poi però l’ingresso di Deborah Kerr e Donna Reed spariglia le carte in tavola e sebbene le situazioni si sviluppino per coppia, con un movimento di raccordo nel destino che le attende, sono queste figure femminili che tengono il gioco fino alla fine, che provano nonostante tutto a cambiare le regole: non ne escono certo vittoriose, anzi sono ferite più degli altri, e Zinnemann non risparmia nessuno. Il loro allontanarsi sulla nave, mentre l’attacco giapponese a Pearl Harbor apre ulteriori scenari di distruzione, è solo un breve respiro illusorio che chiude coerentemente un dramma dell’esistenza.

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La guerra occupa infatti uno spazio esiguo, non potremmo neanche dire che fa da cornice all’azione laddove entra in scena con un moto quasi invisibile, tipico del cinema americano più classico, che condensa le forme in una sintesi, in un’immagine che c’è ma è al margine (il calendario che segna la data del 6 dicembre). Abbiamo invece un’ambientazione militare – il campo di addestramento per soldati – ma anch’essa è uno spazio a sé che vive al di fuori del tempo, regolato dalla legge atavica del più forte.

In un simile contesto i personaggi dell’ex pugile (Montgomery Clift) e del sergente (Burt Lancaster) svettano per umanità: il primo ha le fattezze di un Polidamante moderno, il lottatore greco che ha combattuto riportando una sofferta vittoria e i cui segni sono ancora evidenti sul suo corpo stanco; il secondo è un gigante buono col senso della giustizia e la sua fisicità, come quella di Montgomery Clift (che solo nel 1953 prende parte a film diversissimi, oltre a questo Stazione Termini e Io confesso), sarà il tratto distintivo di ruoli pressoché simili accanto a donne altrettanto espressive come Anna Magnani.

Perché il melodramma è la forma che tiene insieme una materia che pulsa di dolore, di bisogno di riscatto, di una sessualità che straborda pur essendo, per motivi imposti di morale, accennata in un gesto o in una frase. E Zinnemann è in grado di creare crescendi emotivi che sono tanto potenti quanto lontani dagli esiti di un Sirk. La geometria della caserma con le sue architetture pulite, i giardini ordinati, i movimenti cadenzati delle esercitazioni sono improvvisamente sconquassati dal flusso impetuoso e irregolare delle onde che come in un’opera di Klimt avvolge i corpi avvinghiati dei due amanti – il commento musicale fa da supporto alla scena, non si impone; sono i primi piani a parlare più dei dialoghi stessi. È il primo piano di Clift in lacrime che suona la tromba per il suo amico, il soldato Maggio ucciso da un suo superiore, un Sinatra che si confronta egregiamente con una parte per lui insolita (pensiamo a Un giorno a New York o a Bulli e pupe). Poco dopo Clift vendicherà la sua morte in uno scontro diretto, ma non c’è lo sbrilluccichio delle lame dei coltelli che si incrociano; allo stesso modo il colpo ferale non è mostrato, viene lasciato all’immaginazione, noi vediamo solo il risultato – l’ufficiale steso a terra ormai privo di vita e il primo piano di Clift, una costruzione dell’inquadratura identica alla scena iconica della spiaggia che abbiamo ricordato. Lì c’era eros, qui thanatos. Ma Zinnemann non separa, non taglia di netto. A quel sussulto d’amore seguiva subito il dubbio e il dolore; a questa morte inflitta seguirà una morte cercata e quindi subita.

È un’operazione raffinatissima quella che il regista compie rispetto al corpo attoriale che viene a caratterizzarsi senza soluzione di continuità come modello primario d’espressione di un linguaggio che è volutamente amplificato nel significato. Kerr e Lancaster sono seduti su una panchina, si stanno per dire addio perché il sergente alla fine ha scelto di sposare l’esercito. Lei si alza e si allontana, lui la afferra e la costringe a voltarsi. Per coprirsi dal sole alza la mano sinistra: terminato ogni tipo di rapporto personale il congedo tra i due non può che avvenire attraverso un gesto formale, come farebbe un soldato nei confronti di un suo superiore.
Da qui all’eternità, tratto dal romanzo omonimo di James Jones, ha vinto otto premi Oscar, tra cui quelli come miglior film, miglior regia e miglior interpretazione per i due attori non protagonisti, Sinatra e Reed, che non a caso sono le vere vittime di un sistema che affonda le sue origini nella vita stessa.

 

Vincitore di 8 Premi Oscar:

  • miglior film
  • miglior regia (Fred Zinnemann)
  • miglior attore non protagonista(Frank Sinatra)
  • miglior attrice non protagonista (Donna Reed)
  • miglior sceneggiatura non originale (Daniel Taradash)
  • miglior fotografia (Burnett Guffey)
  • miglior montaggio (William A. Lyon)
  • miglior sonoro (John P. Livadary)

Vincitore di 2 Golden Globes:

miglior regia (Fred Zinnemann)

miglior attore non protagonista (Frank Sinatra)

 

Premio speciale al 7° Festival di Cannes

 

 

Titolo originale: From Here to Eternity
Regia: Fred Zinnemann
Interpreti: Burt Lancaster, Montgomery Clift, Deborah Kerr, Frank Sinatra, Donna Reed, Ernest Borgnine, Jack Warden
Durata: 118’
Origine: USA, 1953
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
Sending
Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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