DA SODOMA A HOLLYWOOD 21 – Impegno cosmopolita

Con il consueto impasto di glamour, divertimento e impegno sociale si chiude l'edizione 2006 del Gay & Lesbian Film Festival di Torino. Vince un film filippino, ma ottimi lavori arrivano anche da Nuova Zelanda, Messico, India, Turchia, a dimostrare il cosmopolitismo di una manifestazione che resta necessaria e irrinunciabile.

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Con il consueto impasto di impegno sociale, glamour, divertimento e piena libertà espressiva si è chiusa in quel di Torino la ventunesima edizione del Gay & Lesbian Film Festival. Una cerimonia finale in cui premi, canzoni e spettacolo hanno colorato il Teatro Nuovo di mille luci e di tanti personaggi, da Manila Gorio a Valentina Gautier. Quest'anno il festival è parso leggermente sottotono, quantomeno in rapporto allo splendore della passata edizione. Le dodici pellicole in concorso sono state come sempre caratterizzate da grande coraggio narrativo e da una volontà di emancipazione piena e consapevole, nel tratteggiare storie di personaggi spesso soli o emarginati, alla ricerca d'identità in un mondo ancora non in grado di accettare compiutamente l'omosessualità; ma la resa sullo schermo è risultata talvolta non esaltante in termini prettamente cinematografici. Alcuni film hanno in ogni caso mostrato buone idee, e sono meritevoli di citazione e pieno apprezzamento.

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Innanzitutto il favolistico 50 Ways of Saying Fabulous, del neozelandese Stewart Main (vincitore di un premio speciale della giuria), una storia ad altezza di bambino in cui un dodicenne scopre la propria natura omosessuale; molto bravo il regista a ricreare un clima sognante e fiabesco, sottolineato da un'ottima fotografia, in cui i sogni e le difficoltà psicologiche del protagonista sono ben tratteggiate, il tutto in un clima divertente e spensierato che non toglie però spazio alla drammaticità di alcune determinanti sequenze, in cui assistiamo alla trasformazione di un ragazzino che diventa adulto forse troppo presto. Ben riuscito anche il tedesco/austriaco Fremde Haut (Unveiled) di Angelina Maccarone; è l'odissea di Fariba, donna iraniana costretta a fuggire dal suo paese a causa di un amore omosessuale, arrestata in Germania, e capace poi, assumendo le fattezze e l'identità di un compagno di cella morto, a sfuggire per un po' alle autorità ricostruendosi una nuova vita e riassaporando il gusto dell'amore per una donna che però la crede uomo. Ad alta tensione, senza concedere troppi sconti moralistici, il film della Maccarone vive sul filo di una tensione perenne, ma si dota anche di momenti intimistici e toccanti.


Molto applaudito anche Go West, di Ahmed Imamovic (premio Torino Pride), prima produzione bosniaca a parlare schiettamente d'omosessualità, in cui due gay, un serbo e un bosniaco, fuggono da una Sarajevo assediata ricorrendo anch'essi al travestitismo per salvare la vita e l'amore. Volenteroso e apprezzabile per l'impegno civile, vincitore del premio del pubblico, abile a disegnare le coordinate di una storia tragica nella propria ineluttabilità, ma lievemente approssimativo e farraginoso nella messinscena, l'indiano The Journey di Ligy J. Pullappally; il racconto realmente accaduto di un amore impossibile tutto al femminile che si svolge in un villaggio dell'India meridionale in cui i pregiudizi sono troppo radicati per essere abbattuti. Intenso, struggente e passionale il turco 2 Girls, di Kutlug Ataman: ancora due ragazze, estremamente diverse tra loro, e ancora un amore forse impossibile che si snoda tra la rabbia di una vita tutta da cambiare e il sogno di una fuga lontana e definitiva, nei cuori di personaggi coinvolti in una solitudine esistenziale di difficile sopportazione. Con buone idee, e un ottimo cast (Lisa Kudrow, Maggie Gyllenhaal, Laura Dern), ma nettamente penalizzato da un sovraccarico narrativo che soffoca la classica struttura del film corale, è l'americano Happy Endings di Don Roos (il regista di Opposite of Sex e Bounce). Totalmente da dimenticare, invece, il francese Oublier Cheyenne di Valerie Minetto. Assenti, e non è una novità, i film italiani. La giuria, composta tra gli altri da Udo Kier, Yonfan e Alain Guiraudie, ha decretato la vittoria del filippino The Blossoming of Maximo Oliveros, di Auraeus Solito: di nuovo un bambino al centro dell'attenzione, Maxi, omosessuale accettato e coccolato dai propri familiari, che in una Manila in cui la ricchezza e la povertà costituiscono mondi distinti e inconciliabili trova un amore troppo grande per lui, scatenando drammatiche conseguenze.


Tra i cortometraggi in concorso i lavori migliori vengono dalla Spagna: Invulnerable, di Alvaro Pastor, che affronta con ironia e intelligenza la paura di rivelare al mondo la propria malattia, e La China, di San Juan/Postigo, intensa e rabbiosa rappresentazione di due emarginati allo sbando, ma al contempo commovente ritratto di un'amicizia più forte di ogni difficoltà. Molto efficace, e vincitore del primo premio assegnato dalla giuria, il messicano David, di Roberto Fiesco, in cui uno studente muto e un uomo ben più grande di lui si amano e si lasciano in un breve e magico attimo fatto di sguardi, corpi e parole non necessarie. Il premio per il miglior documentario è stato assegnato allo spagnolo Seres Extravagantes di Manuel Zayas, mentre il riconoscimento per il miglio video è andato al primo espisodio del film collettivo Dong-baek-ggot, dalla Corea.


In conclusione resta il bilancio di un festival come detto in tono minore rispetto allo scorso anno, ma sempre unico nel panorama italiano, e come tale necessario e irrinunciabile. Un festival che ha comunque saputo diversificare la sua proposta, dagli omaggi a Cher e Barbara Hammer al cinema turco, dall'interessante retrospettiva su Ken Russell ai suadenti ed esteticamente raffinatissimi film del regista hongkonghese Yonfan, per arrivare alle anteprime nazionali di Rent e degli ottimi nuovi lavori di Francois Ozon (Le Temps qui Reste) e Neil Jordan (Breakfast on Pluto). Otto giorni, e 180 titoli: i film che cambiano la vita.

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