Dahomey, di Mati Diop
Il documentario sulle 26 opere che dalla Francia ritornano in Benin ragiona sulle cicatrici del passato coloniale e si apre all’evocazione poetica. Orso d’oro alla 74° Berlinale.
Nel novembre del 2021, ventisei opere del tesoro del regno di Dahomey lasciano Parigi per ritornare nel loro paese d’origine, in Benin. Statue che raffigurano gli antichi sovrani in aspetto teriomorfo, con evidenti finalità di culto, troni di legno che propugnano un’ideologia di dominio, testimonianza storica e propaganda che si mescolano al vudù… È solo una minima parte delle oltre mille opere saccheggiate dalle truppe coloniali francesi durante la loro guerra di conquista contro il re Béhanzin, alla fine dell’Ottocento. Eppure si tratta di una restituzione dal valore simbolico innegabile. Tanto da venire accolta in patria con festeggiamenti in grande stile, fortemente voluti dal presidente del Benin, Patrice Talon.
Ma, al di là della retorica, cosa vuol davvero dire un evento del genere? Come può contribuire al riscatto da un passato di oppressione, alla riappropriazione di un patrimonio culturale e alla ridefinizione dell’identità di una nazione? È quanto cerca di capire Mati Diop, che ancora una volta mostra l’urgenza politica del suo cinema. E perciò, dopo una prima in cui racconta il viaggio dei tesori e la loro accoglienza, si concentra su un lungo, acceso dibattito tra i giovani all’università di Abomey. Dove si approfondiscono riflessioni di non poco conto, che svelano una complessità inestricabile. C’è chi, da un lato, vede nella restituzione parziale un insulto o una semplice operazione di facciata, puramente propagandistica, da parte di Macron e di Patrice Talon. Chi rivendica l’importanza di un patrimonio culturale immateriale, fatto di tradizioni, storie, culti popolari capaci di sopravvivere al di là delle spoliazioni materiali. E d’altro canto, c’è chi ricorda come l’imporsi del francese abbia affossato le possibilità evolutive e identitarie della lingua fon e delle altre parlate locali. E poi tutte le questioni legate alla scelta espositiva museale, che limita le possibilità di accesso da parte degli abitanti delle aree interne del paese e quindi rischiano di pregiudicare l’effettiva possibilità di rinsaldare un’identità culturale. E c’è chi invece giudica positivamente questo primo passo, anche per lo sviluppo di una conoscenza tecnica necessaria alla conservazione delle opere. Insomma, quel che viene fuori è una diversità di posizioni, anche estrema. Prova evidente di una cicatrice storica profonda, difficilmente rimarginabile.
Mati Diop prova a dar conto di tutte le voci e di tutti i punti di vista. E probabilmente il suo approccio rischia di diventare didascalico, soprattutto in questa sezione assembleare. Ma è un rischio che si dissolve nel fascino di una forma capace di creare un’alterazione percettiva del dato di realtà. Il film è estremamente concentrato nei suoi 67 minuti. Eppure Mati Diop ne moltiplica le risonanze, le possibilità evocative. Con questa voce aliena, spirito antico di Dahomey, che riemerge dalla notte dei tempi (non a caso, quasi sempre in campo nero, al buoo). Con un lavoro sulle musiche e sui suoni che contribuiscono a creare una specie di stato di trance. Le forme del documentario si aprono alla reinvenzione poetica, per riattivare i canali misteriosi della storia. Per brevi istanti, rimettono in comunicazioni i morti e i vivi. La gloria e il dolore del passato con le inquietudini del presente.
Orso d’oro alla 74° Berlinale
Titolo originale: id.
Regia: Mati Diop
Distribuzione: Lucky Red, MUBI
Durata: 67′
Origine: Francia, Senegal, Benin, 2024