Dal pianeta degli umani, di Giovanni Cioni

Fuori concorso a Locarno 74, il nuovo film di Cioni è un viaggio al confine, tra l’Italia e la Francia, la vita e la morte, la realtà e la fiaba

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C’era una volta, a quei tempi, ai nostri tempi. È una fiaba, non è mai successo. È una storia vera”. Inizia così, con queste didascalie da muto, Dal pianeta degli umani. Già proiettandosi i limiti (se esistono) del documentario.

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Ma dov’è il limite? A volte, nella mente, nell’occhio, nel cuore, non si distingue più. Anche perché ci sono fiabe che possono svelare la vita e storie vere che sfumano nell’oblio o nei fumi della leggenda. Ma potremmo anche dire che tutte le trame, inventate o meno, tornano a unirsi nella complessa sostanza della nostra realtà. Che le immagini e le cose concrete finiscono per confondersi in un continuo che sta, innanzitutto, nell’anima. E i fantasmi a che categoria appartengono? Alla dimensione dell’irreale, semplicemente, o sono le ombre sempre più evanescenti di chi è scomparso nel nulla, per scelta o per necessità? Sono magari le figure che popolano la memoria, il sogno e l’incubo. Di certo, esistono ancora nella misura in cui noi siamo disposti a prestar fede, fintanto che hanno un appiglio nel nostro occhio e nel nostro cuore. Siamo noi a far vivere i fantasmi. A farli muovere lungo i confini tra la certezza e il miraggio.

Ed è un viaggio al confine quello che compie Giovanni Cioni. Probabilmente come sempre è accaduto nel suo cinema. Solo che qui i confini sono netti, terribili, quasi invalicabili. Da un lato c’è il confine politico, quello di Ventimiglia, dove Cioni s’affaccia nel pieno dell’emergenza dei migranti, respinti dalle forze dell’ordine francesi e costretti a cercare vie alternative per uscire dall’Italia. Sono le loro storie a disegnare il tessuto più profondo di Dal pianeta degli umani, storie che vengono raccontate dalla voce stessa del regista, che si mescola alla memoria oscura delle rane delle cisterne d’acqua. Non vediamo i loro volti, clandestini anche nell’immagine, come se davvero non fossero che fantasmi di un altro tempo e di un altro pianeta.

Ma c’è, da quelle parti, anche un varco segreto nel confine tra la vita e la morte. Solo un percorso può condurre in Francia, inerpicato tra le montagne di Ventimiglia, un sentiero, che si chiama, con macabro presagio, “sentiero della morte”. Costeggia un vecchio e principesco palazzo, il castello Grimaldi, che agli inizi del Novecento era appartenuto al dottor Voronoff. Un nome oggi caduto nell’oblio, ma che negli anni ’20 del secolo scorso, esattamente cento anni fa, era di fama planetaria. Voronoff, russo di origine ebraica, si era trasferito a Parigi nel pieno delle campagne antisemitiche per l’affare Dreyfuss. Qui aveva studiato medicina, per poi trasferirsi per anni in Egitto, dove era stato medico personale del Bey d’Egitto. Tornato in Francia, in Costa azzurra, divenne noto per i suoi studi sul “risveglio dell’energia vitale”, sul ringiovanimento degli uomini tramite il trapianto dei testicoli delle scimmie. Una storia tanto folle, da perdersi nella leggenda. Un altro mito alla Frankestein, di cadaveri che riprendono vita e pezzi ricuciti insieme. Prodigio di una scienza che non si fa scrupolo di profanare la morte e mostrare il suo lato barbaro. E chissà, magari, in quel mito ritrovi il cinema che ricostruisce il delirio di immortalità in un taglio di montaggio. Ma nelle stravaganti ed estreme esperienze di Voronoff avverti anche il bagliore di un orizzonte alchemico, il sogno di una pietra filosofale che si incrocia a cabale ebraiche, a mode occultiste di fine Ottocento, quelle che guardavano proprio all’Egitto come alla terra dei grandi misteri. Del resto, la prima moglie di Voronoff, Marguerite Barbe, era affiliata alla Fraternità Ermetica di Luxor, un’appassionata studiosa di teosofia, che parlava agli spiriti dei morti…

Tutto torna, pur se per giri strani. E così pensi che la scoperta della pietra filosofale dovrebbe passare innanzitutto attraverso lo stato di nigredo, la materia prima nascosta nella putrefactio. Quanti echi razziali potrebbero arrivare da questi termini, a dispetto della straordinaria questione spirituale alchemica? È uno dei paradossi della vicenda di Voronoff, costretto a fuggire di nazione in nazione per via delle sue origini. Perché, in fondo, la sua miracolosa impresa scientifica, con gli allevamenti di scimmie da nutrire con le banane di contrabbando nel clima dolce della Riviera, si inserisce perfettamente nell’esotismo di una belle époque che costruisce la nuova civiltà sui resti di quelle “perdute”. È il magnifico scintillio di un’umanità eretta sulle spalle della “barbarie più oscura”, delle razze inferiori e “primitive”, delle grida di rabbia e disperazione dei King Kong portati in catene, delle vittime di uno sguardo coloniale implacabile. Ed è qua che si torna, d’improvviso, al presente, alle storie “oscure” dei migranti senza volto, respinti nella nigredo della clandestinità e del rifiuto. Ma, anche, al mondo invisibile a occhio nudo delle cellule di ameba che si sdoppiano e non muoiono mai (ma vivono, appunto, da amebe), dei virus pandemici che si trasformano e proliferano nell’invisibile.

Ecco, Cioni si muove tra tutte queste suggestioni. Le tocca e le trattiene appena in una forma che è una sovrapposizione di significati e che si espande nella molteplicità delle derive. Le immagini si offuscano, di sdoppiano e perdono i contorni, sono sottoposte alla vibrazione dei suoni e delle musiche, si tramutano in vecchie pellicole graffiate, in frammenti di citazioni cinematografiche, reperti d’epoca, di Stato o di famiglia. I film di Cioni assomigliano sempre più a un deposito, sembrano coperti da un velo di polvere, come caverne che nascondono passaggi segreti e tesori nascosti. Senti che la riflessione e la teoria si inabissano in strati più profondi, in una dimensione da cui scaturiscono la poesia e la visione e tutti i simboli della trasformazione. E il concetto stesso di documentario perde la sua definizione, la sicurezza del dato oggettivo, per diventare un racconto avventuroso o, forse, una pratica esoterica, come il cinema tutto. Un viaggio di esplorazione oltre le colonne d’Ercole, tra le onde del mare, tra la vita e la morte. Ma quale vita, quale morte? Quante volte si muore e si rinasce in una vita? Le due cose non sono poi così diverse nel pendolo che oscilla tra la notte e il giorno.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.75 (4 voti)
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