Dalloway, di Yann Gozlan
Un thriller paranoico che è solo un’elegante e vuoto esercizio di stile che scopiazza alla rinfusa Fincher e diventa vittima del suo stesso sistema che va presto in default. CANNES78. Séance de minuit

La voce di Dalloway, l’intelligenza artificiale, prima si sovrappone poi prevale su quello di Clarissa. Non è solo l’unico vero momento realmente inquietante di questo thriller paranoico ma è anche un contrasto tra due attrici. Di Cécile de France si vede il corpo. Di Mylène Farmer, che doppia Dalloway, si sente invece continuamente la sua presenza nascosta.
Clarissa si trova infatti presso una residenza per artisti dove sta cercando l’ispirazione per scrivere il suo nuovo romanzo sugli ultimi giorni di Virginia Woolf. Qui ha un supporto virtuale che la sveglia la mattina, le accende la radio o la tv e la aiuta a ritrovare la creatività per portare a termine il suo progetto editoriale. La sua presenza però diventa col tempo sempre più invadente. La scrittrice si trova sempre più a disagio e il suo malessere è accentuato dai sospetti complottisti di un musicista che è un altro residente Si tratta di una vera minaccia oppure la donna, già segnata da un grave lutto familiare, sta impazzendo?
Con Dalloway il cinema di Yann Gozlan si confronta ancora col thriller per esplorare il confine tra la razionalità e l’inconscio della mente umana come in Boîte noire. In più ripropone una nuova versione del personaggio dello scrittore che entra in una spirale senza via d’uscita di Un homme ideal. Il cineasta francese porta sullo schermo il romanzo Les fleurs de l’ombre di Tatiana de Rosnay e alimenta un clima ansiogeno, sottolineato dalle geometrie di décors asettici come quelli della residenza e da una Parigi vuota da science-fiction dove ci sono ancora i prevedibili riferimenti alla pandemia. Il genere diventa un’elegante e vuoto esercizio di stile, in un cinema mai realmente claustrofobico, e innocuo nella scissione tra realtà e incubo. Così come vorrebbero essere significativi i riferimenti a Virginia Woolf, tra la vita della scrittrice e il dramma che ha colpito Clarissa e il nome dell’intelligenza artificiale che s’ispira al suo rimanzo La signora Dalloway. Gli echi dal cinema di Fincher sono pallidi. Riproduce la disumanizzazione dell’individuo di fronte alla modernità, l’impossibilità di una fuga salvifica anche quando il personaggio si trova in altri luoghi. Le sparizioni tipo L’amore bugiardo (la giovane ragazza), la prigione di Panic Room (la residenza) sono tra i tanti attraversamenti verso il cineasta statunitense di un film che non trova mai la scatto giusto per uscire dalla sua forma. Anzi, proprio come la scrittrice, ne resta imtrappolato e il sistema va presto in default.