Dancer, di Steven Cantor

Arriva in sala la storia tormentata del bad boy della danza Sergei Polunin, tra performance di danza e video di David LaChapelle. Apertura del Festival dei Popoli 2017

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Il film si apre così, mostrando al centro dello schermo un uomo seduto a terra, la testa bassa, lo sguardo perso, il corpo abbandonato, che oscilla lentamente tra polveri bianche e luci trasparenti che lo attraversano. Sembrerebbe un corpo di statua, ma distruttibile, perfettamente lavorato ma anche così visibilmente marchiato da segni e graffi profondi, con i quali racconta, forse, la sua storia di travagli e disorientamento. Quest’uomo è Sergei Polunin, ucraino, classe 1989, oggi star indiscussa del balletto mondiale, considerato dai più tra i migliori danzatori classici della sua generazione. Ballerino prodigio di enorme talento naturale, così controverso da essere nella stessa persona un po’ enfant terrible, un po’ principe romantico e tormentato, Polunin ha bruciato precipitosamente tutte le tappe della sua vita e carriera,per trovarsi infine – letteralmente – a terra, in un baratro di solitudine e angoscia, forse l’unico posto concesso al vero genio quando scopre la sua dote innata e sa generare con essa un caos fecondo di amore, dolore, potenza.

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Il film biografico diretto dal regista statunitense Steven CantorDancer, non vuole presentarsi (solo) come un classico documentario-elogio di un grande artista contemporaneo colto al culmine del successo, riattraversando in modo cronologicamente ordinato e tradizionale le tappe della sua considerevole evoluzione. Dancer è prima di tutto un film che incontra il corpo del suo protagonista nella sua materialità, il suo sguardo intenso e fiero, il suo movimento nevrotico, i fra-momenti di sacrificio e sofferenza nei quali inizia lentamente a decidersi il destino di quello che sarà un grande danzatore, che nasce però uomo comune, in preda come tutti alle ansie del quotidiano e alle incertezze del futuro, preoccupato del successo e della gloria, ma anche inesorabilmente schiacciato dal peso di un mondo che non sa affrontare.
Polunin, raccontato da Cantor, diventa allora modello di perfezione e decadenza, di morte  – dell’artista dentro di lui – e (ri)creazione di vita, eroe contemporaneo di incredibile umanità che svela impietosamente il volto cupo del successo e il prezzo che c’è da pagare alla fine di un’instancabile e prodigiosa scalata.
Il documentario si apre con un prologo-flash su un Sergei già adulto e acclamato, segnato dal tempo e dal dolore del corpo; il volto appare giovane e impietrito, spiccano gli innumerevoli tatuaggi che spuntano dai costumi di scena; il camerino zeppo di farmaci e antidolorifici, le sue “droghe ricreative”. Ma questo è soltanto l’inizio – o la fine? – di un percorso che andrà a ritroso, con l’intenzione di scavare in ragioni più recondite, lontano dallo stereotipo convenzionale che fa di Polunin un altro James Dean redivivo, una sorta di popstar incontrollata ed esibizionista, così discussa dalla stampa internazionale. Non è questo il caso, non è questo, forse, il vero Sergei.

Cantor, allora, torna indietro alla sua prima infanzia, a raccontare e mostrare – per il 

DANCER_POPOLltramite di rari filmati familiari, girati in epoca predigitale dalla madre-mentore Galina – la vera storia del ballerino, l’incredibile lavoro che si nasconde dietro la costruzione di un corpo perfetto, quando il movimento diventa un affare di controllo e contrappesi, e la vita stessa si fa opera d’arte drammaticamente instabile e fugace.
Il film raccoglie le immagini dei primi passi di danza di Sergei nella cittadina natale di Kherson; poi lo smembramento familiare per proseguire con gli studi a Kiev; infine, la borsa di studi per arrivare alla prestigiosa scuola del Royal Ballet di Londra, dove a soli diciannove anni diverrà primo ballerino della compagnia. Tutti piccoli pezzi di montaggio messi a formare l’immensa coreografia della sua esistenza, alternati a scene di vita privata, giochi con i compagni di corso, interviste di familiari e amici danzatori che lo hanno conosciuto per davvero e accompagnato anche nel momento della sua crisi artistica.
Ma ciò che emerge tra un’immagine e l’altra di salti e piroette a perdifiato – il video diretto da David LaChapelle su note di Hozier resta impresso letteralmente nel cuore – , è la potenza stessa del corpo del ballerino, la sua camaleontica personalità in scena, la voglia di vivere di quest’arte che pure può togliere tutto in qualsiasi momento  – il caso della famiglia irrimediabilmente scissa, che costituisce una delle fratture più evidenti per Sergei. Si parla di danza, dunque, ma se ne parla come si farebbe della vita stessa, come una predestinazione infelice, ma della quale andar fieri; come dell’arte tutta, che può entrare nella mente e nelle viscere piegando il mondo ai suoi dettami: «La danza è come si muove il mio corpo, la danza è come mi sento».
Sergei Polunin racconta una storia di incredibile tenacia seppure nella fragilità del suo essere, dove ogni ostacolo si trasforma nell’occasione della rinascita, ma ad ogni ricominciare appare anche lo spettro della solitudine e dell’oblio.

Titolo originale: id.
Regia: Steven Cantor
Distribuzione: Wanted
Durata: 85′
Origine: UK, Russia, Ucraina, USA, 2016

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