Dans Paris (Parigi ci appartiene)

Non si può stare in silenzio. Ma non ci sono neanche le parole. C’è solo voglia di Parigi. Attraversata mentalmente come sul filo di The Walk prima di essere lì il prima possibile

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Forse stavolta non c’è un tempo finito. Perché questo pezzo è già iniziato da stanotte e probabilmente non finirà mai. Non si può stare in silenzio. Ma non ci sono le parole per descrivere quello che è avvenuto ieri. Si sa solo che è sconvolgente. Tra le cose intelligenti e le idiozie che si sono lette sui social, stavolta non si può fare come René Clair per cui il silenzio è d’oro. La testa gira male perché i pensieri, le parole, arrivano confuse. Il cuore è stretto in gola. Perché sì, Parigi ci appartiene. Ma non da stanotte o dal 7 gennaio scorso con la strage di Charlie Hebdo. Ma ci appartiene da sempre così come ci appartengono tutte le città del mondo. Lo stadio, il concerto al Bataclan, i ristoranti con i tavolini fuori. Tutti i luoghi dove c’è vita, dove c’è cultura quindi nel nostro immaginario dove c’è cinema, improvvisamente spazzati via. Come un onda nera. La metropoli dei sogni che si vuole trasformare in un horror da incubo. Forse bisogna partire dallo strepitoso The Walk. Dalle Torri Gemelle. Sull’equilibrio di quella porta di un altro simbolo distrutto, per viaggiare sempre sulla corda di quel filo o ritornare a Notre Dame nel film di Zemeckis. Perché quella corda è consistente e fragilissima. Ed è forse una coincidenza che da ieri mattina c’è stata personalmente una nostalgia di Parigi. Della Nouvelle Vague. Prima che tutto accadesse. Fa strani scherzi l’inconscio. Stanotte, appena tornato a casa, avevo pubblicato un post su Facebook su questa ‘voglia di Parigi’ non avendo ancora saputo nulla di quello che era successo. Appena ne sono venuto a conoscenza, l’ho subito rimosso.

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François Truffaut - Baisers Volés in 1968 I sentimenti, gli stati d’animo, sono tanti. Contrastanti, confusi. Ma la voglia di Parigi è aumentata ancora di più in maniera esponenziale. La voglia di essere lì, ora. Essendo stata, per me, assieme a New York, una delle città più ospitali, l’unica con New York che ti fa sentire cittadino del mondo, viene voglia di ripercorrerla tutta. The Walk appunto. Intanto camminandoci con la testa, su quello stesso filo di Philippe Petit. La città dove l’associazione diretrta con il cinema è istintiva. E non perché lo hanno inventato lì. E nella testa non ci sono quelle camminate di Rohmer di Il segno del leone, di Fino all’ultimo respiro, I 400 colpi, Zazie nel metrò. C’è la febbrile ansia di vivere di Assayas, la seconda possibilità del ritorno di un destino di uno dei migliori Linklater di sempre Prima del tramonto, tutto il romanticismo dell’inizio di Casablanca, l’ultimo tango di Bertolucci, i tetti di Rivette. E poi gli sguardi da altre latitudini del ondo. Il pallone rosso sulla città di Hou Hsiao-hsien, la scansione del tempo di un orologio di Che ora è laggiù di Tsai Ming-liang, la città del cuore dello splendido. E tutte le nostalgie post Nouvelle Vague delle nuove generazioni.

Non fa stare meglio aver detto qualcosa. Anzi, forse fa stare ancora peggio. Perché quello che è successo stanotte è sconvolgente. Col cuore stretto passa poco sangue nella testa. Non si può stare zitti. Ma non ci sono neanche le parole. C’è solo voglia di Parigi. Iniziando il viaggio proprio da qui, da questa camminata mentale, The Walk appunto, per poter stare lì, fisicamente, il prima possibile. Sotto la metro con le locandine dei film in uscita, dei cinema aperti dalla mattina, delle retrospettive all’aperto….

Fino all’ultimo respiro (Godard, 1960)

 

Le voyage du ballon rouge (Hou Hsiao-hsien, 2006)

 

Sous les toits de Paris (Clair, 1930)

 

Moulin rouge (Luhrmann 2001)

 

Ultimo tango a Parigi (Bertolucci, 1972)

 

Midnight in Paris (Allen, 2012)

Zazie dans le métro (Malle, 1960)

 

Paris je t’aime (2006). Episodio Tuileries (Ethan Coen, Joel Coen)

 

Les amants du Pont Neuf (Carax, 1991)

 

Baci rubati (Truffaut, 1968)

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