Dave Chappelle vs. cancel culture

L’uscita di The Closer, il nuovo speciale comico di Chappelle, ha causato licenziamenti e marce sotto il quartier generale Netflix, riaprendo il dibattito sulla cancel culture e la libertà di parola

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Durante le proteste dopo la morte di George Floyd, verso la fine di maggio del 2020, sono diverse le occasioni in cui sono stati presi di mira monumenti e statue. I valori della società sono cambiati e quegli individui, spesso legati al passato schiavista e colonialista statunitense, non erano più visti come degni di celebrazione. Nemmeno un mese dopo, a Milano, la statua di Indro Montanelli che viene imbrattata con della vernice rossa e una scritta, “razzista stupratore” a ricordare la relazione del giornalista con una ragazza abissina di 12 anni. La cancel culture è ufficialmente nel dibattito italiano. Con un fisiologico ritardo, visto che negli Stati Uniti se ne parla dal 2014 e dall’avanzata del movimento MeToo, che in Italia non ha avuto molte conseguenze. Spesso, infatti, i bersagli della cancel culture non sono solamente dei monumenti, ma anche delle persone.

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È il momento peggiore per essere una star”, diceva il comico Dave Chappelle nel suo speciale Netflix Stick and Stones nel 2019. La “stagione di caccia delle celebrità” aveva fatto vittime eccellenti, tra cui due suoi amici come Louis CK e Kevin Hart. Le sue battute non avevano risparmiato il MeToo per le posizioni “troppo draconiane” e la comunità LGBTQ+ e in particolare la comunità transgender per la sua mancanza di autoironia. “Dovrebbero prendersi delle responsabilità per le mie battute. L’idea che qualcuno possa nascere nel corpo sbagliato non l’ho inventata io. Ma devono ammettere che è fottutamente divertente”, ha detto prima di immaginare lo scenario in cui si identifica con un uomo asiatico.

Questo primo round tra lo stand up comedian e la cancel culture ha creato un bel polverone, ma non come il putiferio nato con l’uscita, il 5 ottobre scorso, del suo nuovo The Closer. Chappelle prende di petto la questione, accusando il MeToo di inefficacia e di ipocrisia, ricordando come dal 2014 in poi ben otto stati statunitensi hanno varato le leggi anti-aborto più dure della loro storia. Ha poi raccontato scontri (un’esilarante rissa in un bar) e incontri (quello, velato di dolore, con la comica Daphne Dorman) con la comunità transgender, prendendo le difese di J. K. Rowling, autrice di Harry Potter e accusata di transfobia a causa di alcuni suoi tweet.

Le accuse di hate speech sono giunte puntuali, così le richieste di cancellare lo speciale. È anche caduta la cortina di ferro di Netflix con inaspettati leak di dati finanziari proprio riguardanti Chappelle, che ha causato tre licenziamenti. Immediatamente dopo una ventina di dipendenti si sono licenziati e il 20 ottobre è stata organizzata una marcia di protesta sostenuta tra gli altri dalla regista Lilly Wachowski e dal creatore di Transparent Joey Soloway. I manifestanti hanno letto una lista di richieste, tra cui quella di cancellare ogni riferimento al comico negli spazi di lavoro, aggiungere un disclaimer prima di The Closer che avvisi della presenza di hate speech, oltre che l’apertura di un fondo dedicato ad autori e opere legate alla comunità transessuale, quest’ultima richiesta sostenuta dall’attore Elliott Page. La risposta di Chappelle non è tardata ad arrivare: “Non mi piego alle richieste di nessuno. Se mi vogliono incontrare sono d’accordo, ma ho delle condizioni: scelgo io la data e il luogo dell’incontro e dovete aver visto il mio speciale dall’inizio alla fine”, ha detto dopo aver raccontato l’ostracismo che ha colpito il suo documentario, la cui uscita era imminente.

Nonostante il sacrosanto invito del comico a vedere The Closer, non è nel suo contenuto la questione fondamentale. Perché, al di là che lo speciale sia o no offensivo (il che dipende da una sensibilità personale, a cui comunque il mondo non è obbligato ad adattarsi), il tentativo di cancellare il contenuto è sintomo di un atteggiamento pericoloso: credere che nell’immaginario ci sia spazio solo per idee condivisibili. Pensare che il ruolo della cultura sia quello di raccogliere pensieri e opere solo degni di essere celebrati significa rischiare di privarla della sua vitalità. Possedere la libertà di parola non significa solamente avere a disposizione la scelta di pronunciare parole giuste. E come ci ricordava un anno fa Nick Cave, eliminare tutto ciò che viene giudicato “sbagliato” significa anche cancellare l’idea di compassione e rinunciare a qualsiasi possibilità di redenzione, che sia o meno il caso di Dave Chappelle. Non solo a quella degli altri, ma anche alla nostra.

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