"David di Donatello 2003"

Ozpetek vince sei statuette, Muccino neanche una. E'il responso della piatta serata dei David, in cui abbiamo assistito alla premiazione (e non) di un cinema glorificato dal botteghino, ma quasi del tutto assente come sguardo vitale, e soprattutto come intensità espressiva.

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

La sala dell'Auditorium è piena. Giornalisti, fotografi, cameraman. Tutti presenti, tutti puntuali all'ormai tradizionale cerimonia dei David. Qualcuno si accalca dalle retrovie, è in ritardi e crea piccoli marasmi interni scomodando signore imbellettate e impallando l'occhio indiscreto delle telecamere. Tutti pronti insomma per festeggiare un nuovo anno di cinema italiano, scivolando velocemente lungo statuette iridate, discorsi emozionati, flash indispettiti. E' bello esserci, proprio per la sensazione di partecipare ad un gioco senza palla, ad un movimento astratto su coordinate spaziali poco chiare. Ecco, ci sentiamo come la pallina accarezzata virtualmente da Hemmings nel finale di Blow up. La pura gratuità dell'esserci per l'esserci, quando il vero festeggiamento andrebbe consumato nell'estasi furente e violenta di una visione, anche se intermittente, insicura, debole. Non c'è oggi un cinema italiano. Al massimo un paio di opere che fanno discutere tutta una stagione (è il caso dei pompatissimi film di Ozpetek e Muccino), per poi lasciarci orfani di luce dialettica/ critica/ vitale troppo presto. E' l'anno di Muccino questo (suoi infatti incassi straordinari), dello rispecchiarsi pseudonaturalistico all'interno di una linea filosofica che contraddice se stessa proprio nell'atto dell'interpretare il cinema come luogo attraversato/ decifrato/ rappresentato quale riflesso automatico di mode e momenti. Non abbiamo bisogno di specchi, ma di irradiatori asimmetrici che ci riverberino in altri orizzonti, su nuovi corpi, ma questo è un altro discorso. Veniamo dunque ella serata. Si inizia con un balletto, ritmato dalla musica che Piccioni scrisse per tanti film di sordi. La riascoltiamo ora, mentre scorrono le immagini dei Vitelloni, del Vigile e di tante altre opere. Certo è che nell'arte della commemorazione non ci batte nessuno, ma stavolta il ricordo pesa come un macigno, quella di Sordi non è stata soltanto la scomparsa di un grande attore, ma di una sorta di angelo custode del nostro cinema, delle nostre abitudini, della nostra vita di tutti i giorni. Dopo lo stacco iniziale, ci troviamo immersi nell'atmosfera opaca dello show, con il classicismo susseguirsi di candidature e di premi, all'insegna di un'automaticità che almeno in sede di regia tende molto a ricreare l'atmosfera della notte americana (non quella di Truffaut, ma proprio quella che regnava qualche settimana fa al Dorothy Pavillon di Los Angeles). Poco è lo spazio lasciato al fuoricampo, al non previsto, alla libertà di un set blindatissimo. Niente di cui stupirsi comunque. Almeno fin quando non appare Benigni.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Abbiamo amato il suo sublime Pinocchio, lo abbiamo visto come magico riepilogo di tutto il cinema del regista/ comico/ attore /giullare/ filosofo e soprattutto come dichiarazione d'amore ad un cinema di un corpo (di carne, di legno, non importa) che ci riconcilia con la magia della vita e con la grandezza del testo collodiano. Troppo avanti Benigni per gli Oscar, ma troppo avanti anche per questa grigia serata, illuminata da un messaggio di Roberto che, paonazzo in volto per il suo parlare a raffica, si è detto dispiaciuto per non essere intervenuto, ma anche stavolta il suo è un gioco con l'immagine di sé, un'acrobazia pericolosa sull'orlo di una parola inesausta/ estrema/ stravagante/ geniale che ha spazzato via ogni retorica dell'esserci, per seppellirla con una voce/corpo molto più vitale di tante altre. La sua opera ha vinto due David (assegnati alla scenografia e ai costumi del compianto Danilo Donati), ma le assegniamo tranquillamente un ulteriore premio morale, perché il cinema deve rimettersi in gioco, e Benigni lo ha fatto con una forza che oggi in Italia hanno in pochi. Suo comunque il momento topico della serata. Per il resto, poco o niente da registrare. Veniamo dunque ai premi più importanti. La migliore attrice non protagonista è Piera Degli Esposti per L'ora di religione. L'attrice viene dal teatro, appare poco nel film di Bellocchio, ma si inserisce perfettamente nell'universo bellocchiano, ne saggia i contorni e ne rilancia la flagranza in una accensione mimica da brivido. Due parole allora, sull'Ora di religione. E' un film importante, un'opera dolorosa sul mistero della reincarnazione (da intendere in senso assolutamente laico però) in panni per certi versi imposti, ma anche una riflessione sul farsi del corpo all'intero di spire concettuali volutamente deformanti e grottesche. Molto estremo dunque come sguardo, radicato insomma in una pratica filosofica prima ancora che filmica, che Bellocchio coltiva dai primi anni '60.  Quando si tratta di dare al film un riconoscimento minore, viene chiamato sul palco Castellitto/Ernesto Picciafuoco, ritira il premio, liquida la faccenda in due parole e corre via. Sembra di assistere allo spettacolo di rifiuto messo in scena dal suo meraviglioso protagonista nelle sale in cui si fa/disfà il potere. O forse è solo un'impressione. Arriviamo allora all'Imbalsamatore che si aggiudica il premio per il suo miglior attore non protagonista, Ernest Mahieux, nonché il premio alla miglior sceneggiatura. Quello di Garrone è uno sguardo che ci ha sempre intrigato (Da Estate romana in poi), quest'ultima opera è un bel concentrato di visioni fuori fuoco che culminano nell'esibizione astratta e materica di un melò niente male. La storia è interessante, Mahieux ne è un solista convinto ed ambiguo, ma forse più che premiare il testo, avremmo preferito una segnalazione della regia., nervosa e inquieta soprattutto nell'oltrepassare di volta in volta ogni preciso disegno tipologico. Niente da rimproverare comunque.

Prima di passare agli ultimi premi, una piccola annotazione sul miglior film straniero. E' il Pianista di Polanski, ne siamo contenti, e ci fa ancora più piacere vedere il piccolo Roman in sala per ritirare il premio. Quella che alla notte degli Oscar di quest'anno è stata l'ombra di una presenza, ecco materializzarsi davanti a noi nei movimenti di un regista che con quest'ultima opera ha messo d'accordo tutti, commuovendo mezzo mondo. Siamo con lui, con le esitazioni del suo protagonista, immersi nella guerra della sopravvivenza a vagare lontani/vicini in città semidistrutte. E parla di guerra (in un discorso sincero e imbarazzato) anche il giovane Daniele Vicari, salito sul palco per il premio al suo Velocità massima quale migliore opera esordiente. In realtà non ci ha convinto più di tanto, specialmente nell'esibizione della traccia periferica di un cinema irrisolto sul piano visivo, e lacunoso su quello più generale. Si intravedono delle buone intenzioni, ma non si osa mai più di tanto. Per chiudere, citiamo il premi ai due migliori attori protagonisti (la Mezzogiorno e Girotti per La finestra di fronte), la miglior regia di Pupi Avati per Il cuore altrove e infine il miglior film che è andato ad Ozpetek sempre per la Finestra di fronte. Per i migliori attori, niente da dire (Girotti poi nelle vesti di un corpo desostanzializzato e ridotto ad ombra di sé è stato superlativo), qualche dubbio sugli altrui due premi. Avati è autore di un cinema (e anche stavolta non si è contraddetto) piccolo, nostalgico, appassionato. Non ci suscita certo entusiasmo, semmai ci fa un po' di tenerezza, certo è che per la miglior regia si sarebbe potuto posare qualcosina in più (non ci avremmo visto male il Crialese di Respiro). Che poi La finestra di fronte rappresenti un antidoto a Muccino, ci crediamo poco. E' senz'altro un film interessante, pieno di zone buie, di squarci spaziali sospesi tra passato e presente, ma rappresenta anche l'essenza di un cinema provinciale, che ha paura di allargare il proprio orizzonte, chiuso in un vicolo cieco di forme destinate a gemmarsi all'infinito. Senza fine purtroppo, visti gli incassi.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative