David di Donatello 2021 – Sospesi nel tempo
Edizione a suo modo rassicurante che incarna un’annata “di transizione”, con lo sguardo spesso rivolto al cinema del passato e in attesa di un futuro, al cinema e non, davvero tutto da immaginare
Dodici mesi dopo una premiazione consumata direttamente online nel pieno del primo lockdown, i David di Donatello si sono ripresentati con un evento in presenza, ligio alle norme di distanziamento e prevenzione che stanno permettendo le riaperture in tutto il mondo o quasi. Non c’è stato alcun proclama su una ripartenza immediata del cinema italiano, né l’auspicio di nuovo Neorealismo sulla falsariga del secondo Dopoguerra come aveva detto il presidente Mattarella lo scorso anno. La tragica ed estenuante stagione di chiusure e coprifuoco hanno obbligato tutti stavolta a un profilo basso e il ministro Franceschini nel suo intervento iniziale ha parlato dei 300 milioni investiti nel Recovery Fund e della parziale riapertura di cinema e teatri “dopo un deserto molto lungo da attraversare”.
La 66° edizione dei premi del cinema italiano non poteva che essere fiacca, traumatizzata dallo stallo distributivo e dalle indecifrabili fruizioni streaming dei film candidati. è stata un po’ la versione italiana degli ultimi Academy Award, senza Soderbergh alla regia, con meno film belli e l’ennesima conferma della curiosa idiosincrasia tra i David e i nostri nomi “internazionali”: dopo Gabriele Muccino e Luca Guadagnino è toccato quest’anno a Laura Pausini, vincitrice del Golden Globe, candidata all’Oscar ma sconfitta dalla canzone “Immigrato” tratta da Tolo Tolo. Già, Gabriele Muccino. L’edizione era stata parzialmente ravvivata nelle settimane precedenti dalla polemica da lui innestata per l’ostracismo riservatogli dall’Accademia dal 2003 a oggi e in particolare all’ultimo film Gli anni più belli, probabilmente il suo migliore – e qui vi suggeriamo di rileggere la recensione tutta anima e cuore di Simone Emiliani. All’indomani delle nomination, sul suo profilo twitter, Muccino aveva parlato di scollamento tra i film premiati e il pubblico di massa, rincarando la dose nei confronti del pluricandidato Favolacce dei giovani gemelli D’Innocenzo, il film più amato dalla critica italiana. Paradossalmente la serata di ieri ha visto proprio in Favolacce il grande sconfitto, con un solo riconoscimento al montaggio di Esmeralda Calabria.
Il sospetto però è che in alcune categorie abbiano avuto la meglio proprio i titoli più fruibili e più visti. Come spiegare altrimenti la vittoria di Mi chiamo Francesco Totti come miglior documentario a fronte di titoli decisamente più “aperti” e interessanti (Notturno, The Rossellinis, lo stesso Faith della compianta Valentina Pedicini). Un David che in questi anni ci sembra continui a tradire e a non rappresentare la ricchezza e la complessità del panorama documentaristico italiano. Che Totti sia finito con l’essere il principale fantasma mediatico di questi ultimi mesi “cinematografici” la dice lunga sullo stato dell’attuale immaginario audiovisivo, e il suo è un fil rouge che in qualche modo lo riconduce al premio per il miglior regista esordiente andato a Pietro Castellitto, autore del sopravvalutato I predatori e interprete della serie Tv Speravo de morì prima, ispirata proprio all’ex calciatore. Figura lanciatissima e indecifrabile il giovane Castellitto, tra impulsi nevrotici e citazioni pseudo-nietzschiane (“I premi fanno piacere e le sconfitte fanno creare”). Lui e Matilda De Angelis sono stati comunque gli unici giovani premiati di una serata che ha avuto il momento più intenso nel premio postumo a Mattia Torre e che ha fatto registrare anche l’importante affermazione di Netflix con il riconoscimento a Sophia Loren (il settimo della carriera!) come attrice protagonista di La vita davanti a sè e i tre David a L’incredibile storia dell’Isola delle Rose di Sydney Sibilla, per settimane al primo posto tra i film italiani sulla piattaforma di Ted Sarandos.
Il trionfo è stato tutto del veterano Giorgio Diritti e del biopic sul pittore Ligabue, interpretato da Elio Germano. I sette riconoscimenti andati a Volevo nascondermi ci sembrano tanti e rappresentano l’immagine perfetta di un cinema “pulito”, elegante, ma illustrativo, istituzionalizzato. L’onnipresenza di Raicinema e Paolo Dal Brocco sul palco erano lì a dimostrarlo. Una vittoria a suo modo rassicurante, quindi, che incarna un’annata mai come in passato così “di transizione”. Ancora una volta ci sembra di essere sospesi nel tempo. Con lo sguardo spesso rivolto al cinema del passato e in attesa di un futuro, cinematografico e non, davvero tutto da immaginare.