David Lynch e il cinema come veicolo per il ridicolo sublime

Da quando David Lynch è diventato uno dei cineasti più celebrati e analizzati, la critica cinematografica si è concentrata sul fornire chiavi di lettura per le sue opere. Il cinema di Lynch è infatti una materia complessa, stratificata e spesso difficile da gestire, dato che in questo caso l’elemento simbolico è una chiara derivazione dell’arte pittorica simbolista, astratta e spesso surreale.

L’esempio di Strade perdute (1997)
Prendiamo qui come esempio uno dei suoi film più estremi, sia nella messa in scena, sotto un punto di vista visivo, sia per quanto riguarda la storia vera e propria, come si può vedere in Strade perdute, titolo originale Lost Highway del 1997. Esempio tipico di noir moderno (o forse più propriamente postmoderno) la pellicola sceneggiata da Barry Gifford, autore del libro da cui lo stesso Lynch aveva tratto Cuore selvaggio nel 1990, Strade perdute mischia in modo originale e unico atmosfere noir a un immaginario e una tematica volutamente surreale. Per molti versi il film segnerà una svolta nella filmografia del regista americano, dato che da questo momento in poi le sue opere saranno ancora più estreme, radicali e cervellotiche. Non che Lost Highway sia una storia lineare, ma la pellicola conserva alcuni elementi che hanno reso David Lynch un regista di culto durante gli anni ottanta e i primi novanta.

Da Blue Velvet a Cuore selvaggio: il cuore della poetica lynchiana
Siamo qui dalle parti di Velluto blu e di Cuore selvaggio, ma nonostante gli sforzi di rifarsi al cinema classico e al noir in stile Billy Wilder e Alfred Hitchcock, questo film è figlio dei suoi tempi e mette al centro della storia una nuova versione della femme fatale. Lo avevamo visto già nel cinema di Brian De Palma e naturalmente in un film cult come L’ultima seduzione e in Jade di William Friedkin. Entrambi i film vedono nel cast un’attrice come Linda Fiorentino, volto e soprattutto fisico perfetto per incarnare entrambi questi ruoli. In Lynch vediamo però come il ruolo della femme fatale, stavolta interpretato da una maggiorata Patricia Arquette, sia non solo funzionale alla storia, ma compia un efficace commento d’attualità rispetto al ruolo di donna e di ossessione tra il classico e il moderno. Il passo avanti che Lynch effettua con Strade perdute diventa visibile se lo paragoniamo alle sue opere precedenti, come appunto Velluto blu, precedente titolo di culto e capolavoro degli anni ottanta.
Se in Velluto blu assistiamo alla metamorfosi da uno scenario idilliaco e bucolico, rappresentato dalla comunità di Lumberton fino a giungere al lato oscuro della provincia americana, vediamo come l’osceno universo sospeso tra incubo e farsa infestata da rapimenti, scene di sadismo ed esibizionismo erano centrali, ma funzionali nello sviluppo quasi lineare della storia. In Strade perdute invece, l’universo noir di donne corrotte, di padri osceni, di delitti e di tradimenti, scopriamo un protagonista maschile alle prese con una vita matrimoniale asettica quanto alienata, che è peculiare di un centro residenziale periferico e dai tratti metropolitani. Come direbbe Bruce Springsteen, un’oscurità ai margini della città inghiotte e ghermisce i suoi protagonisti. Assistiamo quindi da un lato a un intreccio tipicamente noir, fatto di sesso perverso, tradimenti e delitti, mentre dall’altro lato la disperazione assume tratti più evidenti e sconvolgenti.

Il ritorno del noir “classico” durante gli anni novanta
Ci sono tanti casi nel cinema hollywoodiano che presentano tratti simili, da Psyco a Vertigo, per restare in zona Hitchcock, ma anche nel cinema moderno americano anni novanta, abbiamo visto opere come The Game di Fincher o lo stesso The Gambler scritto da William Monahan, che ci mostra protagonisti alienati che sono disposti a vivere una doppia vita fino in fondo. Nel cinema americano gli esempi si sprecano, specialmente in opere come Fuori orario di Martin Scorsese o Tutto in una notte di John Landis. Non c’è bisogno di finire in una bisca, come avviene ad esempio ai protagonisti di Molly’s Game di Aaron Sorkin, per finire nei guai. David Lynch infatti, pur avendone tutte le qualità non si è mai cimentato in un’opera dedicata al gioco d’azzardo. Un filone che ha sempre flirtato con il noir e con una certa atmosfera compassata da film hollywoodiano classico alla Humphrey Bogart. David Lynch ci parla di una New Orleans decadente, ma non ci porta mai dentro una sala da gioco di casino, anche se potrebbe farlo, viste le sue tematiche ricorrenti di protagonisti dissoluti e dannati. Come sostiene il critico Slavoj Zizek nel suo libro Lettura perversa del cinema d’autore, David Lynch fa un utilizzo del cinema volto a mostrare il ridicolo sublime di cui si nutre la sua poetica autoriale.

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