Die, My Love, di Lynne Ramsay

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Corso estivo di MONTAGGIO, dal 22 luglio

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Si muove tra Malick e Polanski, con una Jennifer Lawrence strabiliante che getta uno sguardo lucidissimo sulle ombre della maternità. CANNES78. Concorso

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Corso estivo di RECITAZIONE CINEMATOGRAFICA, dal 14 luglio

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Fin dall’inizio della sua carriera, Jennifer Lawrence si è mostrata interessata ad esplorare, secondo un punto di vista sempre molto personale, i temi della femminilità e della maternità. Infatti, davanti a questo Die, My Love, quinto lungometraggio di Lynne Ramsay, regista tra gli altri di …e ora parliamo di Kevin e A Beautiful Day, è impossibile non pensare alle interpretazioni di donne borderline e madri problematiche, fragilità mentale e rapporti di coppia instabili in titoli come Il lato positivo o Madre!. In Die, My Love, adattamento del romanzo omonimo di Ariana Harwicz, sembra riprendere il discorso, portando la performance al suo apice, “vestendosi” della sua stessa gravidanza (la seconda) e mostrando a più riprese i segni, visibili, evidenti, della maternità sul corpo, le sue trasformazioni e le sue cicatrici, i seni gonfi di latte, il ventre pronunciato, gli sbalzi ormonali che si ripercuotono sul fisico così come sulla mente.


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Prodotto dalla stessa attrice, coadiuvata da Martin Scorsese, il film racconta della depressione post partum di Grace e del suo rapporto conflittuale col marito, interpretato da un Robert Pattinson alienato, inerme, incapace di affrontare il crollo, interiore ed esteriore, della moglie. Jennifer Lawrence è animalesca, selvaggia, protettiva e distruttiva. Recupera il senso ancestrale della maternità come strumento biologico di preservazione della specie, e allo stesso tempo, vira alla riflessione sugli effetti umani della gravidanza: il rifiuto del corpo e del sesso da parte del compagno, l’insonnia, l’ansia, la rabbia, l’aggressività. Il bisogno di rimettersi al centro, di spostare l’attenzione su di sé e il proprio malessere, anche in modo violento, disturbante, autolesionistico. Di ritrovare la propria persona, di essere vista come un individuo distinto dal proprio bambino.

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Ritorna alla mente If I Had Legs I’d Kick You di Mary Bronstein, in cui addirittura la figlia malata non è mai messa in campo. Anche il figlio di Grace e Jackson sparisce per lunghe sequenze, non si sa che fine abbia fatto o chi se ne stia prendendo cura nelle fughe rabbiose dei genitori in macchina o durante le discussioni notturne. È un film fatto di continue intrusioni, questo Die, My Love, di figure in ombra, come il vicino di casa, il cavallo o il cane, che si fanno metafore evidenti di temi quali la fedeltà, e che Grace non esita a eliminare o ad accogliere. Intrusi come può esserlo un bambino che ti cresce dentro, e che anche una volta nato conserva il bisogno di contatto, che letteralmente “succhia via”, fluidi nutritivi, certo, ma anche energie e forze, autonomia e soggettività. Un estraneo che Grace riconosce e protegge e, al contempo, rifiuta e abbandona. Vengono in mente due capolavori di Roman Polanski, Repulsion e Rosemary’s Baby, che esplorano la psicosi, con la differenza che qui le ombre della mente si materializzano, si incarnano.

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La macchina da presa si sofferma sui paesaggi sconfinati e disorientanti, la natura del Montana in cui il tempo si liquefa, si confonde e si sovrappone, in un andirivieni in cui è difficile distinguere passato e presente. Lo sguardo si perde nelle distese d’erba nelle quali Grace si muove come un animale selvatico, per poi alzarsi verso cieli d’azzurro intenso e stellate notturne, che ricordano alcuni squarci malickiani, celebrati dalla presenza di Sissy Spacek, che ritorna – nel ruolo della madre di Jackson – imbracciando il fucile, in un puro omaggio a La rabbia giovane, a ciò che ne resta e ciò che si è trasformato. Ma se il film poggia interamente sulla performance di Lawrence, la regia di Lynne Ramsay si ritrova negli inserti musicali (curati dalla stessa regista, anche musicista), ennesima presenza invadente e dissonante, che rompe gli equilibri. Brani strumentali riprodotti dal giradischi o ritornelli cantati dalla coppia di sposi, come quello a due voci di In Spite of Ourselves o lo straordinario assolo finale di lei su Love Will Tear Us Apart.

Ma Grace odia tutto: la casa che Jackson ha scelto per loro, la musica (“Ho sempre odiato le chitarre“, dice), la vita. Quella che conduce e quella che ha generato – e che ora le impedisce di creare nuovamente, lei, scrittrice col blocco della pagina bianca – e che la relega a corpo anonimo, spersonalizzato. Indesiderabile, invisibile. Ecco allora che la fisicità arrotondata dell’attrice si anima in modo goffo e imprevedibile, si muove in maniera scomposta, fuori sincrono, fuori luogo (qui ritorna la Tiffany Maxwell del film di David O. Russell): in casa, al matrimonio, alla festa in piscina. Rompe gli schemi delle aspettative sul corpo, sul ruolo e sull’immagine stereotipata delle madri, per lasciare spazio all’ardore e alla collera, all’insofferenza e alla solitudine. Uno sguardo lucidissimo, che aderisce perfettamente alla narrazione contemporanea della maternità. “Non ha un nome” risponde Grace a chi le chiede come si chiama il figlio. E infatti non viene mai nominato, è sempre e solo “the child”, “the baby”. In sala tutti ridono, ma non è una battuta.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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