Dietro le quinte. Sentieri Selvaggi intervista Mathieu Amalric

In occasione dell’uscita in sala dell’ultimo Stringimi forte, ecco la nostra intervista con Mathieu Amalric del 2015. Al cineasta è dedicata la serata da Sentieri Selvaggi a Roma giovedì 10 febbraio

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a cura di Aldo Spiniello e Sergio Sozzo
intervista originariamente pubblicata su Sentieri Selvaggi Magazine n.17, maggio 2015

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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Serata Mathieu Amalric da Sentieri Selvaggi a Roma giovedì 10 febbraio h 20:30, prenotati qui

Che Mathieu Amalric, attualmente nelle sale con l’ultimo Stringimi forte, sia uno degli attori centrali e decisivi del cinema contemporaneo, lo sappiamo da tempo. Un volto e un corpo riconoscibilissimi, eppure la sua figura è quasi inafferrabile, fuori controllo, esplosiva. Una presenza che non può essere imbrigliata, ben al di là dei personaggi che interpreta, molto spesso esempi lampanti della nostra “crisi d’azione”. Anche i suoi film da regista ci sembrano sfuggenti, seppur in maniera diversa. Ora, dopo questa lunga conversazione che abbiamo avuto con Amalric, il sogno sembra aver contorni più definiti. Perché emerge ancor più chiara la consapevolezza di uno sguardo originalissimo e personale, fuori da ogni discorso teorico “di moda”, eppur denso e pieno come le cose della vita, quelle che ci toccano e ci riguardano. Un cinema d’amore, che appoggiandosi su costruzioni esilissime, si lascia andare sul filo di una sensazione, di un sentimento, di un’utopica ricerca di libertà. Non è facile restituire tutta la vitalità dei discorsi di Amalric. Le frasi spezzate, i salti, le pause, le affermazioni serie e le battute, i versi, le facce. Per questo abbiamo cercato di essere fedeli, quanto più possibile, alle sue parole.

Partiamo da La chambre bleue. Nel vederlo, abbiamo avuto l’impressione di un’estenuante prova teatrale, con il protagonista costretto a ripetere sempre la sua versione dei fatti al giudice. Al punto che viene a delinearsi una specie di impasse dell’attore, non più in grado di comprendere il valore delle parole. A differenza della sua amante, che, invece, nutre una fede assoluta nella parole…

È vero, è vero. Nel romanzo di Simenon è esattamente come dici. A un certo punto, ho avuto proprio l’impressione di una ripetizione teatrale. Bisogna prima raccontare a un gendarme, poi bisogna ridire ancora a un altro gendarme, poi c’è il processo giudiziario dove ti pongono nuovamente le stesse domande, e biso-gna raccontare di nuovo. E Simenon, in ogni istante, sembra essere al fianco del presunto colpevole. Seduto accanto a lui, sembra dire che è tutto innominabile, nel senso che non può essere nominato, non c’è bisogno di assegnare parole alle cose per raccontare quello che hai vissuto. Invece occorre raccontare agli inquirenti e poi al giudice istruttore e poi partecipare a quella rappresentazione teatrale che è il processo, ripetendo quelle parole che la società ha bisogno di sentirsi dire. C’è una frase che ho dimenticato di mettere nel film, che avevo adorato: “la gente ha bisogno di pensare che si agisce per una ragione precisa”, cosa che non è vera. La rappresentazione teatrale del processo consiste nell’illusione di poter definire la malattia, in modo che non contagi gli altri… Eppure, abbiamo tutti vissuto questi momenti di oblio o, al contrario, di epifania…
Simenon scrive questo romanzo negli anni ’60, ma in ogni caso è uno che non ha mai creduto all’amore. L’amore per lui è solo l’atto. C’è un romanzo molto importante in rapporto a La chambre bleue, molto molto vicino, Lettre à mon juge, pubblicato più di dieci anni prima, dove Simenon scrive cose assolutamente terribili sull’argomento, sul fatto che per lui l’amore è il possesso fisico e null’altro. Negli anni ’60, tornando sulla questione, sembra un uomo che vuole riflettere sulla propria malattia sessuale, malattia reale, fatta di pulsioni sessuali irrefrenabili. E nel romanzo si flagella, nel vero senso della parola. E credo che per questo abbia scritto di un personaggio che non reagisce affatto e si convince della propria colpevolezza.

Quando ho visto Tournée per la prima volta a Cannes, ho pensato immediatamente ad Assassinio di un allibratore cinese

Bè, certo, il riferimento è diretto.

…ecco, il tuo personaggio, in un certo senso, è ai margini del mondo dello spettacolo. Tutti i tuoi film sembrano porsi al lato di questo mondo, guardarlo quasi di nascosto. Eppure tu, come attore, come star a tutti gli effetti, sei esattamente al centro dello show business. Come spieghi quest’apparente contraddizione?

In effetti devo dire che sono stato attirato dal cinema molto presto, ma ci sono entrato, quasi cascato dentro, da dietro le quinte. Quello che mi piace del set non è la dimensione dello spettacolo. Per esempio, se dovessimo fare una scena qui, in un film, sapete, c’è sempre quel momento magico in cui arriva prima l’assistente con il regista o la regista: insieme guardano il décor, l’ambiente e cercano di capire come girare, come rendere il tutto. Poi si guarda alla luce e incomincia a configurarsi una specie di lavoro geografico. Lo spazio diventa vivente. Poi arriva il direttore della fotografia, il capo operatore, che prova a filmare prima qui qui, poi là. Poi arriva il capo elettricista con le luci, e si viene a definire il “punto caldo” del riflettore. Il set prende un altro aspetto e comincia davvero a sembrare il luogo di uno spettacolo teatrale. È così che ho iniziato ad amare il cinema. E sono sempre stato attirato dai trucchi del mestiere, che, d’un colpo, cambiano tutto. Del resto, poi, ho vissuto molto con attrici di teatro, guardandole sempre da dietro le quinte. E sono sempre rimasto sconvolto, non capivo come avessero il coraggio di mostrarsi, di stare sulla scena. Dunque è vero che vengo da dietro le quinte. E Tournée è una storia vissuta da dietro le quinte. C’è molto raramente, forse mai, il punto di vista dello spettatore, c’è sempre il mio personaggio che passa da dietro e guarda, di nascosto, al palcoscenico. Ecco questo è il mio punto di vista naturale, il punto di vista di un osservatore, un realizzatore, un tecnico. Non è il centro della scena, come dicevi. Quello dell’attore non è il mio posto naturale… è qualcosa che capita quando un’altra persona arriva e mi dice “vatti a mettere sotto luci”… Quando recito in un film, mi piace non avere la sensazione di essere al centro. Credo che le persone che interpretano un film debbano avere la consapevolezza di essere soltanto un elemento della scena. Ed è qualcosa di molto diverso rispetto a quando si è su un palcoscenico teatrale.

Quando hai presentato l’ultima volta a Roma Le stade de Wimbledon, hai detto che il tuo obiettivo era di riprendere ma femme et la lumière(“la mia donna e la luce”). È una frase che ci sembra decisiva, che spiega il tuo cinema, in qualche modo impressionista.

In realtà si tratta di uno scherzo. Dovevamo presentare la cartella stampa del film e, d’un tratto, mi è venuta in mente questa formula pubblicitaria. Invece di “a girl and a gun”, parafrasando Füller, “a girl and the sun”… ha funzionato e i giornalisti hanno apprezzato. Ma è, comunque la verità. Avevamo Jeanne che camminava e l’abbiamo seguita, con qualche neon, e tutto ciò che capita di bello è merito anche del direttore della fotografia, Christophe Beaucarne, che è lo stesso di Tournée e de La chambre bleue.

In Joann Sfar (dessins) c’è un’altra scena indicativa, molto bella. È il momento in cui tu sfogli i disegni di Sfar, appoggiati alla schiena nuda della tua donna (Stéphanie Cléau). Viene da chiedersi, qual è il centro di quella scena? I disegni, la schiena di Stéphanie, la tua voce?

La sessualità è molto importante nel mondo di Joann Sfar, l’erotismo… è ossessionato dal sesso. Ma io non conoscevo bene Joann Sfar. Non conoscevo che degli schizzi, mi piacevano molto. O qualcosa su Joann Sfar?”. In quel momento non avevo alcuna voglia di mettermi a girare qualcos’altro, ero impegnato nel montaggio di Tournée. Poi ho saputo solo dopo che il documentario era già stato avviato e c’erano stati problemi con il regista designato, le solite cose. Così ho iniziato, ma non ero attratto dal personaggio. Anzi, posso dire che non lo amo affatto. Non lo amo per nulla. E allora ho cercato di trovare qualcosa che mi interessasse: la pagina bianca. È davvero affascinante come un designatore comincia il suo lavoro… perciò non filmo praticamente che i disegni. Mentre d’altra parte, c’è quest’uomo che si logora, si strugge, ha bisogno di parlare…
È un po’ come quando Glenn Gould metteva due radio ai lati della tastiera del pianoforte e si metteva a suonare Bach, per essere concentrato nonostante il rumore… Ecco questo mi interessava in Sfar. E poi perché volevo mettere Pascin, assolutamente… Pascin è davvero eccitante.
E poi, ecco, c’è quella scena in cui riprendo la schiena di Stéphanie… avrei voluto riprendere di più, ma a quel tempo era ancora molto timida. Ora, con me, è diventata un po’ una prostituita sullo schermo (ride)…

In ogni caso è il segno di un cinema sottilmente erotico. In fondo i tuoi film raccontano sempre la bellezza femminile, al di là delle imperfezioni…

No davvero. Potrei fare di meglio. È una cosa che non ho mai osato…. Non lo so… Forse in qualche modo è anche vero. Perché ho rivisto Le Stade de Wimbledon la settimana scorsa a Venezia, a un festival di scrittori. Non lo rivedevo da molti anni. Ed è lì che ho pensato che l’erotismo, se c’è, è qualcosa che ha a che fare con Jeanne, col mio rapporto con lei, qualcosa che abbiamo fatto insieme. È la stessa cosa con Stéphanie ne La chambre bleue, anche se in maniera diversa: è più distante con Stéphanie, più complicato, più illeggibile. Dunque, forse, l’erotismo per me è qualcosa che ha più a che fare con il sentimento.

C’è, però, anche un altro tema ricorrente, che diviene centrale soprattutto in Tournée. La ricerca, nel mondo dello spettacolo, di un’altra famiglia, di altri legami che non siano quelli di sangue. Una famiglia in cui i rapporti sono più veri, intensi, appassionanti. E qui torniamo a Cassavetes, se vogliamo…

Con Philippe Di Folco, che collabora con me alle sceneggiature, questo è un tema che torna tutte le volte… la famiglia è qualcosa che non si sceglie, come la famiglia di Mange ta soupe. Ma poi un giorno si apre un’altra possibilità… È certo che la gente fa così. Crede in quest’utopia. Ma penso che, in Tournée, s’incontri non tanto nel personaggio di Joachim, quanto in quella scena nell’hotel abbandonato alla fine. È una scena che non c’era inizialmente e che abbiamo scritto solo in seguito, quando, grazie all’assistente, Elsa Amiel, abbiamo scoperto quel magnifico hotel abbandonato.
Il film curiosamente doveva chiudersi con una “chambre bleue”. Io avevo già letto il romanzo di Simenon e lo avevo fatto leggere a Philippe e a Marcelo (Novais Teles, cosceneggiatore). Perciò il film doveva finire in una chambre bleue… la scena con Mimi, anche se poi è diventata una camera gialla e non più blu… Ma poi Elsa ha scovato quest’albergo e, a quel punto, è maturata un’altra cosa, l’idea e il desiderio che quella storia non finisse in un rapporto a due, ma con il gruppo, la famiglia che tornava. L’abbiamo chiamata “la scena dell’adozione”, cioè sono loro, le ragazze che adottano Joachim. Sono loro che gli dicono “vieni, ti accettiamo con noi”. E lì nasce la possibilità di una famiglia e lui per la prima volta se ne rende conto.

Del resto, fino a quel momento, avevano sempre tenuto a ribadire che si trattava del “loro” spettacolo.

Esatto, proprio così. “Tu ci hai utilizzato per tornare”. Cosa che è vera. Lui ha utilizzato la loro energia per aver la forza di ritornare in Francia, per tornare a combattere…

Ma il finale di Tournée ci fa pensare anche a un altro aspetto fondamentale del tuo cinema. La sua capacità di lasciarsi andare alla deriva, di abbandonare le coordinate della narrazione, per incrociare altre direzioni, impreviste. In fondo tutti i tuoi film raccontano di una perdita di controllo, che poi è la vita…

È vero… per me è davvero complicato riuscire a capire come fate a trovare dei legami tra i film. Perché sono cose, evidentemente, a cui non penso mai. Penso alla famosa affermazione di Truffaut, assolutamente vera, che quando si fa un film, lo si fa contro il precedente, per evitare di ripetersi. Più si fanno film, più è difficile. Jean Echenoz – l’ho sentito in un’intervista – dice che è sempre più difficile… è come saltare da un trampolino in una piscina. Quanto più in alto si spostail trampolino, tanto meno acqua sembra esserci nella piscina, finché non rimane più acqua… È un po’ così. Ma poi, è evidente che, quando si riguardano i film, si trovano dei legami…
Quello a cui mi fate pensare, rispetto a quello che dite, riguarda piuttosto il modo di scrivere una sceneggiatura. Vale a dire che si può avere una malattia, che è quella di scrivere una sceneggiatura in cui ogni cosa abbia un senso. Ma non è vero! È per questo che amo molto scrivere con Marcelo o con Philippe, perché le cose vanno proprio come dite… alla deriva, è vero, è vero… Noi utilizziamo un altro termine, ma ha esattamente lo stesso senso, “andare per la tangente”… È evidente in Tournée, ma per forza di cose anche ne La chambre bleue, nell’impotenza di quest’uomo che, al contrario, è completamente concentrato e rinchiuso nella riuscita sociale, perché viene da un ambiente modesto e ha messo tutta la sua energia nella costruzione di una nuova vita, una nuova casa. Fino a crearsi una vera e propria prigione con la sua donna ideale. E sfortunatamente questa è la tragedia che accade alla maggior parte della gente. Pensare di essere riusciti in qualcosa e cancellare tutto il resto… In Tournée abbiamo proprio questo, da un lato i nomadi e dall’altro i sedentari, e, dunque, le uniformi e, dunque, persone dietro le sbarre, a cui non si chiede altro che dire frasi fatte. È questo capita sempre più nel mondo del lavoro, ma più o meno in tutto, al punto che le persone non hanno più il senso della responsabilità: “non sono io, non posso farci niente”…

Anche i personaggi che interpreti per gli altri sembrano sempre perdere il controllo. Sono essi stessi fuori controllo. Pensiamo a Desplechin, innanzitutto. Anche Polanski, se vogliamo, ma soprattutto Desplechin. Nel momento in cui entri in scena per la prima volta in Jimmy P., nei panni di Devereux, sei al telefono e il tuo interlocutore ti dice di essere meno esuberante. Ecco, l’esuberanza può quasi essere considerata una delle tue cifre…

È innanzitutto Arnaud ad essere così. Desplechin ha un senso vero della commedia, un gusto per l’esagerazione. Mi ricordo che, per quella scena, in post sincronizzazione abbiamo fatto una versione un po’ più “dolce”, ma poi alla fine si è utilizzata la presa diretta. E il personaggio viene fuori così come mi aveva chiesto Arnaud in fase di ripresa. Enorme, “troppo”… è Arnaud che è così. Ama molto presentare dei personaggi eccessivi, e difatti, anche in Racconto di Natale, quando compare il personaggio di Henry è un qualcosa di enorme, completamente fuori misura, fffffffppss… Ha un gusto per questo, allo stesso modo per I re e la regina, la prima scena con l’infermiera… Ma poi alla fine, nel dramma – ecco, veramente quando vi ascolto, rifletto su cose a cui non sono abituato a riflettere – c’è sempre qualcosa nei film di Arnaud, una forma di armonia, di dolcezza… sì di armonia.

In effetti Desplechin sembra sempre trovare una bellezza nella malattia, raccontare la profondità dei rapporti, dei sentimenti a partire da un eccesso, un’eccezione, una stortura.

È per questo che, ad esempio, nel finale di Racconto di Natale, quando Henri va all’ospedale da sua madre, c’è una riconciliazione incredibile… E Jimmy P., del resto, è un film che non ha conflitti e sono sicuro che sia stato questo il problema per la gente. È questo il motivo per cui il film non ha funzionato. La gente è andata in bestia, convinta che il film non andasse, proprio perché non c’erano conflitti… In Racconto di Natale, quando Henri va a trovare la madre, indossa una mascherina. In presa diretta dicevamo cose orribili in quella scena con Catherine, offese, bestialità, cattiverie. Poi, in post sincronizzazione, Desplechin ha cambiato le frasi, visto che non poteva leggersi il labiale. Ed è diventato un dialogo molto dolce… è divertente… Arnaud aveva appena avuto un bambino e credo che, con Florence (Seyvos, compagna di Desplechin), qualcosa sia davvero cambiato in lui. Trovo che lei sia una donna straordinaria, straordinaria… Florence… dovete leggere i suoi romanzi, sono molto molto belli… tra l’altro è la sceneggiatrice di Noémi Lvovsky.

Prendiamo i libri di Mange ta soupe, gettati via dal figlio… non ricordo il nome adesso…

Non ha nome, nessuno ha nome nel film… Già, nei film di Arnaud, giustamente, i nomi sono talmente biblici, Ismael, Junon, è straordinario… Ma normalmente quando parlo dei film, da spettatore, spesso dico “sai, il padre, il fratello”…

…sì, il figlio che lotta disperatamente con i libri della madre. Ne Le stade de Wimbledon, abbiamo questa figura fantomatica di uno scrittore che non ha mai scritto nulla. Ne La chambre bleue, abbiamo i tanti piccoli tradimenti nei confronti di Simenon, con il protagonista che si chiama Julien come il personaggio de Il rosso e il nero di Stendhal. Sembra quasi una specie di rifiuto della letteratura, il tuo, o meglio della letteralità… e ritorniamo in qualche modo alla questione della sceneggiatura, alla fatica dell’adattamento.

È un lavoro assolutamente esaltante. Ad esempio con la scrittura di Echenoz, su cui mi sto concentrando, perché la sua scrittura è davvero quella che si ha voglia di filmare… Il problema è di trovare il mezzo proprio del cinema per fare esplodere, esaltare la scrittura. Ma per arrivare a qualcosa che non potrebbe essere altro che il cinema. Si passa per un tipo di lavoro, come posso dire… mettere delle piccole bombe nelle frasi e far esplodere tutto. BOOM. No, dapprima quello che fai è ricopiare tutto: dunque ami, rispetti, fai tutto per bene, perché in questo modo assumi una conoscenza perfetta e trovi la maniera in cui lo scrittore procede. Poi metti delle piccole bombe dentro e fai esplodere tutto. Sai, come le lettere magnetiche sul frigo, che vanno per conto loro… e se chiudi gli occhi, ti rimangono impresse queste grandi croci, che non hanno più nulla a che vedere con la sensazione magnifica del lettore, ma con qualcosa che ha a che fare con la sala cinematografica, è proprio del cinema…
Quando con Stéphanie abbiamo incominciato a lavorare sull’adattamento de La chambre bleue, ci siamo dovuti confrontare con la sua struttura non lineare, caso raro in Simenon. Il romanzo ha una struttura all’inverso, procede a ritroso. Il suono e l’immagine hanno due tempi che si accavallano e si mangiano a vicenda. E quindi tu non sai più se a una domanda del presente risponda un personaggio del passato, se si tratti di un ricordo… Come tu dici, le parole per l’amante hanno una precisione assoluta: “dimmi, Julien, se io mi rendessi libera, anche tu lo faresti?”. E poi c’è il poliziotto che ti chiede di ripetere, ma tu non ricordi le parole. E poi il giudice che rilegge la frase sul verbale, solo per chiedere “è d’accordo, è questo che lei ha detto?” e siccome c’è l’avvocato che suggerisce di confermare, tu ripeti in maniera fredda, meccanica. Ecco, è su questo punto, mi son detto, che il cinema può, grazie a delle percussioni, rendere il tutto. E mi sono divertito a provare. Dunque non è una questione di fedeltà, ma di andare a cercare, una volta presa una materia che non è fatta per il cinema, un modo, una strada che esalti ancor più il linguaggio proprio del cinema. E Stendhal mi fa il medesimo effetto… Ci sono pochissimi dialoghi in Stendhal, davvero pochi. Tutto d’un tratto ci sono delle scene dialogate molto lunghe, ma in generale no, in generale le sue ellissi sono molto strane. È come se voi aveste a che fare con qualcosa che accade là fuori, sul terrazzo, e vi chiedeste “cosa succede là?”. E così cercate di partire da qui, dall’interno, di raccontare quello che vi sembra di aver sentito. Ma non siete sicuri, così aprite la finestra e dunque uscite con la macchina da presa. Ma l’ingegnere del suono non è ancora pronto, e quindi non si avvertono ancora il suono, i dialoghi. Più in generale, in Stendhal la percezione è quasi nulla, perché lui arriva alla fine, alle due ultime frasi… ed è come se dicesse “cazzo, stanno ancora dicendo queste sciocchezze d’amore, ‘mia cara, ti amo’, no è un dialogo che fa schifo” e, poi, rivolgendosi a (un ipotetico) cameraman, dicesse “taglia qui questa scena”. E così taglia e passa ad altro. Echenoz è altrettanto complicato. Non so come fare… Se penso a Resnais, mi dico che adattare Echenoz è possibile. Resnais ci è andato molto vicino… Ed Echenoz è molto simile a Daniele Del Giudice… Ecco, a proposito di Daniele, quando ho rivisto il film a Venezia, mi sono detto che non era poi così male la nostra scelta della voce narrante, quella di Jeanne che sembra raccontare ciò che accade, ma in fondo sta scrivendo un romanzo. E il risultato è proprio un romanzo, il testo che, alla fine, consegna a Ljuba, che le dice “lei ha molto inventato!”… Ecco, c’è la realtà e poi, dopo, la letteratura, che trasforma le cose.

Tutto ciò ci fa pensare anche alla particolarità del tuo cinema che sembra sempre fuori tempo, oltre la modernità. Specialmente La chambre bleue. Magnificamente démodé. I tuoi film non cercano mai di andare incontro al pubblico, seguono autonomamente la traccia della loro ispirazione. Sono inafferrabili, un po’ come i tuoi personaggi.

Sì, sì… questa è un questione importante, perché ho l’impressione che, in effetti, sia il film a decidere. Per esempio, riguardo Simenon, perché questo film è in 4/3? È Simenon che ispira questa scelta, mi sembra che sia questa la sua focale, il suo formato. Perché in lui non c’è tenerezza, non ci sono carezze. È ciò che ci siamo detti con Beaucarne. Tournée, al contrario, ha molto a che fare con la carezza. Simenon ha, invece, a che fare con la dissezione. Tu non sai quello che passa nella mia testa e io non so cosa passa nella tua e, dunque, tutto appare più lontano. Ed ecco, così, i 4/3, dove la macchina da presa, per forza di cosa, deve essere piazzata più lontano. Dunque ci è sembrato giusto così. Abbiamo provato in altri modi, col cinemascope, ma il piano fisso si è imposto abbastanza presto e il 4/3 ci è sembrato naturale, perché, tra l’altro, permette di inquadrare più in alto e più in basso e, dunque, è perfetto per i corpi…

Ma nel film ci sono anche dei momenti di passione…

Sì, c’è quel travelling. Giustamente… è il solo momento di travelling. Il movimento di macchina, l’abbraccio, il vento, la musica, e poi il miracolo di quella luce, un vero miracolo. Aveva piovuto sempre quel giorno. Avevamo finito e, tutto d’un colpo, PIN!, tutto si è illuminato… Abbiamo avuto quindici minuti di quella luce e abbiamo rifatto tutto… e c’era Christophe, che non è affatto un credente, completamente in ginocchio: “ah Dio, grazie”. Ecco, riguardo al desueto, al démodé, credo che sia il film a decidere. Modernità cosa significa? Solo il piacere di provare qualcosa… e ne La chambre bleue questo qualcosa si trova già nella sceneggiatura, si situa in fase di scrittura, nella percussione tra i differenti tempi… Mi sono divertito a fare il film e ho cercato di raccontare due tempi che si accavallano… È molto, molto difficile l’accademismo. C’è un accademismo della modernità, quello che crede di essere la modernità, ma che, in effetti, diviene vecchio molto velocemente col passare degli anni… quando riguardi dei film così strani… perché i film di Bresson sembrano tanto moderni, mentre gli zoom degli anni ’70 sembrano, invece, così datati? E perché gli zoom all’indietro di Barry Lindon, invece, sembrano attuali? Perché quella maniera molto lenta di zoomare all’indietro fa pensare alla pittura e non data il film in un’epoca precisa. Dunque sotto questo aspetto, con Beaucarne, abbiamo fatto molta attenzione. Anche perché lui ha girato tantissime pubblicità e, dunque, conosce alla perfezione i cliché estetici della nostra epoca, lo zapping, il boom, etc.… l’accademismo esiste in ogni epoca, è qualcosa di normale…

Trascrizione di Federico Rizzo

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