Dio esiste e vive a Bruxelles, di Jaco Van Dormael

Cinema che regge il tempo di una (mezza) sequenza, senza alcuna visione del mondo che non sia l’ostentazione di un artificio elegante quanto innocuo, un congegno macchinoso e fine a se stesso

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Ci risiamo. A sei anni da Mr. Nobody – che venne presentato in concorso a Venezia – il belga Jaco Van Dormael è tornato lo scorso maggio a Cannes con il suo stile stravagante ed eccessivo e non possiamo che ripetere anche stavolta le nostre perplessitá su un’idea di cinema di sole marionette orchestrate con (presunta) bravura ed enorme presunzione.
Stavolta l’obiettivo è filmare e raccontare un mondo alternativo, dove Cristo viene chiamato JC ed è un pupazzo in miniatura che vuole ribellarsi nei confronti del padre e Dio ha le fattezze di Benoit Poelvoorde. Lui è un uomo in carne ed ossa che passa le giornate davanti al computer, decide con cinismo e humor nero le regole e i destini dell’umanitá. In casa propria beve birra e usa la cinta per rimproverare la figlia. A questa situazione si ribellerá proprio quest’ultima Ea, con un progetto scombiccherato quanto vincente: cambiare le carte in tavola e riscrivere il vangelo con l’aiuto di altri 6 apostoli, che ovviamente corrisponderanno a personaggi quanto mai bizzarri: tra cui ci sono un uomo che frequenta locali a luci rosse, un ragazzino malato, un serial killer, una bellissima ragazza con un braccio di porcellana, una moglie insoddisfatta (Catherine Deneuve) che troverá l’amore fidanzandosi con un gorilla (!).

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Ovviamente la satira religiosa di Van Dormael punta tutto sull’eccesso e su una visionarietá pubblicitaria e di superficie che a prima vista puό certamente ingannare i distratti, ma non ha nulla a che vedere con eventuali riferimenti come Terry Gilliam o anche soprattutto il Kevin Smith di Dogma. Se infatti il regista americano riusciva a esplicitare un’anima anarchica e allo stesso tempo intima (nonché sorprendentemente spirituale) ai suoi due angeli e a un progetto che in un modo o nell’altro si rivela ancora oggi un oggetto stranissimo e unico nella commedia americana di ultima generazione, Van Dormael si accontenta di giocare con la forma, evidenziando minuto dopo minuto l’anima estetizzante dell’operazione – saturata non solo dalle immagini e dalle scenografie del set, ma anche da scelte musicali invasive che alternano La mer di Charles Trenet con il The aquarium di Camille Saint Saens e molta altra musica classica.
Il regista belga cerca continuamente il colpo a effetto, l’ironia immediata che regala qua e lá momenti innegabilmente divertenti ma che lasciano presto il campo a un congegno macchinoso e fine a se stesso.

E’ un cinema che regge il tempo di una (mezza) sequenza insomma, senza alcuna visione del mondo che non sia l’ostentazione di un artificio elegante quanto irrimediabilmente innocuo.

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