Disco Boy, di Giacomo Abbruzzese

L’esordio del regista, due storie di autodeterminazione con un legame onirico, affoga in un mare di citazioni che rischiano di travisare il discorso che il film stesso imposta

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Disco Boy si apre su un sogno. È nell’elemento onirico che Giacomo Abbruzzese trova la sua personale guida nel mondo della finzione. Dopo un percorso nel cinema documentario culminato nel 2022 con la candidatura ai César per America, il suo primo film di finzione è anche l’unico film italiano in gara alla 73ª Berlinale dove ha vinto l’Orso d’argento per il miglior contributo artistico per la fotografia di Hélène Louvart. In una giungla, diversi uomini di colore dormono stretti sotto un riparo di fortuna. Sono dei combattenti del Delta del Niger, che cercano come possono di opporsi all’inquinamento delle società petrolifere occidentali. In pochi stacchi, però, finiamo dall’altra parte del mondo. Due uomini bianchi cercano di entrare in Francia, spacciandosi per dei tifosi. Proprio nell’attraversare il confine, guadando un fiume, una motovedetta investe e uccide uno di loro. Rimasto solo, Aleksey non ha altra scelta che arruolarsi nella Legione straniera con la prospettiva di diventare francese. Non può immaginarsi che il destino capriccioso gli riserva un incontro proprio con il combattente africano, che lo cambierà per sempre.

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È proprio nell’incontro tra i due protagonisti, tra il sognante Morr N’Diaye e il sognato Franz Rogowski, che Disco Boy si perde. Fino a quel momento il film sembra trovare un suo sguardo e idee di messa in scena a tratti interessanti e anche radicali (una sequenza in particolare riesce a ragionare su un tipo di visione talmente tanto reale da rovesciarsi). A metà dei suoi 90′ totali, l’afflato sperimentale della narrazione si contorce fino a mangiarsi sé stesso in una sequela di citazioni sempre più esplicite e didascaliche.

Non che questo sia necessariamente un problema. D’altronde, viviamo nell’epoca in cui l’originalità è stata triturata dai pistoni di una ricombinazione sempre più vorticosa (“Dove hai imparato il francese?”, chiede l’ufficiale; “Dai film” risponde Aleksey). Strappati dalla loro origine, i frammenti si ritrovano liberi di generare nuove connessioni, come se il riutilizzo ossessivo non possa fare a meno, oltre una certa soglia, di trasformarsi in novità. È difficile, però, che tutto questo sia possibile quando le citazioni vengono fatte con il bisturi. Non c’è la riappropriazione di un immaginario, né un aggiornamento di esso, ma al massimo emulazione, ben diversa dalla creazione di un falsario.

Tra una colonna sonora che strizza l’occhio continuamente a Cliff Martinez, balli in discoteca con triangoli al neon e marcette con un contrastante accompagnamento musicale, Disco Boy manca il punto di un discorso impostato dal film stesso. Un discorso che, con il dominio incontrastato di una sceneggiatura in cui tutto torna, rischia addirittura di travisare. Forse, però, era una battaglia persa in partenza. Magari una forma in grado di scardinare la nostra mente, donandoci nuove possibilità, non è più possibile sulla terra dominata dalla macchina. Magari questa va cercata su Nettuno.

 

Orso d’argento per il miglior contributo artistico a Hélène Louvart

 

Regia: Giacomo Abbruzzese
Interpreti: Franz Rogowski, Morr Ndiaye, Laëtitia Ky, Leon Lucev, Michal Balicki, Matteo Olivetti, Robert Więckiewicz
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 92′
Origine: Francia, Belgio, Polonia, Italia, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
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