Dissipatio, di Filippo Ticozzi

Ticozzi racconta l’esaurirsi dell’energie nel pensiero, questo trascolorare del mondo che si tiene al riparo dal rischio. Eppure filma, immette immagini nel movimento… Al Festival dei Popoli

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Durante il primo lockdown di marzo e aprile, per giorni e giorni, settimane, non ho scritto una riga. Ero in un’impasse. Come se si fosse bloccato il motore delle idee (sempre troppo scarse, oltre che stupide). E, soprattutto, la volontà di tenerle ferme in una scrittura. In compenso, mi attardavo sul rito quotidiano, la cucina soprattutto. La messa in pratica del minuto, come una specie di forma religiosa, di monachesimo da ora et labora. Ma l’eremita vero è quello che disperde se stesso nel sacrificio inutile della solitudine. Eppure, che differenza c’è, che differenza c’era? Come dice, provocatoriamente, Carlo Schirinzi in un momento di Dissipatio, col piglio crudele della provocazione disperata: “che ce ne fotte, a casa eravamo e a casa siamo…”. Proprio come se nulla fosse cambiato. Eppure no. Perché, nel blocco forzato c’è come un senso di impotenza, di incapacità a mettere in atto un’intenzione o un desiderio, che è una sospensione strana, dove avverti tutte le possibilità ancora integre, intatte, ma le senti anche come inesplorabili, impercorribili, inesauribili. C’entra L’esausto di Deleuze (che io non conosco!). Ma ancor più la comprensione di una condizione psicologica di reclusione che si replica. Anche se adesso, c’è chi, magari, ha ancora la sua fortuna di compiere un percorso, di disegnare tracciati nella città, di espandere scie di azione come fossero piccole onde di una massa d’acqua che si sposta.

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E nella reclusione, nell’impasse, l’unica cosa che puoi fare è tenere in moto il pensiero, per alimentare una volontà e un desiderio, per non soccombere all’annichilimento totale, per non ridurti allo stato larvale delle cose mai nate o già morte. Ma questo pensiero in movimento, che deve fare i conti con la tua ansia e la tua irrequietezza, è proprio ciò che ti spossa, prima si carica di impazienza, poi di rabbia e, poi, alla fine ti fiacca le energie e si spegne. Sì, Ticozzi racconta proprio questo esaurirsi delle energie nel pensiero, questo trascolorare del mondo che si tiene al riparo dal rischio, questa specie di congelamento dell’orizzonte, che trova giustamente nel bianco e nero la sua penultima gradazione possibile, prima della dissoluzione totale, nel bianco o nel nero fa lo stesso. Ma Ticozzi però non si limita a pensare, filma, quindi traduce la sua irrequietezza in qualcosa, in una scia di senso, in una scossa di contatto e condivisione. Prova a mettere in forma questo stato di sospensione, per farne un contenuto, quindi per contenerlo e sventarne la minaccia. All’invisibilità del virus si contrappone una potenziale viralità del visibile, l’ostinazione di immettere altre immagini in un circuito infinito, in un flusso di immagini che vivono al di là della loro destinazione. E sono immagini che non possono che fare mostra dell’irrilevante. Una mano che sfoglia un libro, un andare su e giù per un corridoio, un radersi. Scorre il tempo del discorso, senza che la storia muova un passo, senza che ci sia neanche più la traccia di una storia, se non forse in quelle conversazioni telefoniche, in quei vocali che però sono solo uno specchio, un pensare il punto. E alla fine, seppur non accade nulla, il film è stato fatto. Gira a vuoto ma comunque gira. L’inquadratura, seppure immobile, comunque scorre nel tempo. E diventa un dato, un dono. E come ogni dono, forse, sta lì come un gesto inutile, ma che segna piano piano un solco, anche nel suo dissiparsi, nel suo disperdersi. È come un fremito di un uccello che dorme (per dirla alla Borges). E chissà che non sia questa una traccia possibile di quell’ultima inquadratura finale. Di una vita naturale che continua il suo corso, a dispetto di tutto. A dispetto del bianco e nero. A dispetto dell’albero spoglio. Dopo il movimento non resta che il vuoto. Ma quel vuoto non è che la disposizione a un altro movimento, a un altro attraversamento, a un altro colore.

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