Divergenti 2011 – Angel, di Sebastiano D'Ayala Valva

ANGEL (2011) di Sebastiano d'Ayala ValvaIniziamo dalla fine: la Mujeron, che fino ad ora ha messo a nudo ogni parte di sè, accosta la tenda rossa di cabaret, dietro alla quale svolge il suo hard work determinata come una creatura dickensiana, una persona che come Atlante, porta l'intera volta celeste sulle spalle: per quanto possa fare, la sua famiglia aggiungerà una stella, un pianeta, un peso insopportabile al carico già al limite. Cominciamo dall'ora di mezzo, "l'ora dell'imbrunire, quando non si distingue più il cane dal lupo", per un film che sceglie di abbracciare onestamente la contraddizione irriducibile.

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Abbiamo sentito la madre di Ángel ripetere come un mantra lamentoso, ma piatto e singolarmente inespressivo, che morirà ANGEL (2011) di Sebastiano d'Ayala Valva senza l'aiuto del figlio, che in fondo è meglio un figlio maricón che tossico, perchè almeno porta soldi invece di chiederli.

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La ferocia del suo cinismo ci sconvolge. Eppure, nel frattempo siamo già stati scagliati nel ronzio degli insetti, nelle baracche umide e miserabili, già abbiamo fatto un passo indietro: dopo che abbiamo visto le gocce di sudore, le cavallette, la strada che prima non c'era, le borse da viaggio con pochi vestiti, chi siamo noi per comprendere le meccaniche malate della sopravvivenza, se Ángel può sperimentarle senza per questo ottenere la certezza dell'amore?

La violenza  fobica che cresce nella miseria paludosa dell'Ecuador – un aspetto infine strettamente allacciato all'autosfruttamento del proprio corpo, per cui le mutazioni non possono essere libere ma finiscono per fungere da optional indispensabili per restare sul mercato –  viene testimoniata per gradi, sottilmente, in modo esplicito solo dalle voci delle vecchie compagne di strada a cui Ángel fa visita. Le uniche voci piane, pacate, forse le uniche che contengono dell'affetto gratuito. Tutte le altre, quelle dei familiari di  Ángel, che pure gli fanno le feste, contengono qualcosa di spiritato, ANGEL (2011) di Sebastiano d'Ayala Valva qualcosa di terribile, che sfugge a ogni registrazione eppure è stata catturata e trapela lentamente.

Sebastiano d’Ayala Valva aveva già toccato con mano e filmato per tre anni l'esistenza ostinata dell'ex boxeur ("uomo, donna, trans. Solo una persona" si definisce nel suo spagnolo dolce e arrotondato). Questa testimonianza è in Les travestis pleurent aussi (2007) e continua con coerenza in Angel. Ora il regista, giovane ma dallo sguardo centenario per onestà intellettuale (stesso autore de La Casa del Padre) segue Ángel, l'emigrato, via dalle luci false per turisti a due passi da Place de Clichy, dove si prostituisce, nel suo primo viaggio di ritorno a casa, una volta ottenuto il permesso di soggiorno in Francia, a Guayaquil: porta dei regali ai figli di sua sorella, ha nostalgia di casa, deve fare i conti con l'amore per la sua famiglia. La famiglia lo accoglie con affetto, ma fa anche conti di altro tipo. Soldi ricevuti, più soldi da ricevere, come se il donnone, Mujeron, fosse il fabbro degli dei, l'atleta del sacrificio, e potesse fabbricarne ancora tra scintille di fatica olimpica. Eppure: questo film non offre consolazione, non gioca con facili teorie etnosociologiche e non tenta mai di orientare il giudizio in una traiettoria codificata, nemmeno di striscio, come una mano che qualcuno ci infila soavemente sotto il mento per mostrarci l'Orsa e il Carro. Non possiamo (e non dobbiamo) pretendere di capire cosa sta accadendo.

Mujeron ama la sua famiglia come si ama una figura tra tutte, la piega di una schiena, la peluria di una nuca, in particolare: la sua famiglia è un individuo, e questo corpo mostruoso e distante, amato e saturnino, che divora i suoi figli, è tutto ciò che gli importa nella vita, lo ripete. La sua devozione è incondizionata, non è pietà filiale, non è ossessione, non è retaggio culturale, non è legge sociale, non è "richiamo di sangue"; o almeno, è poco queste cose, e molto amore che non intende arretrare, però nemmeno restare cieco di fronte alla meschinità sottile con cui viene accolto.
Ecuador. ANGEL (2011) di Sebastiano d'Ayala Valva È anzi Mujeron – nello smarcamento costante che ci ha fatto ricordare a lungo questo documentario nel day after che segue a ogni "catastrofica" e bella visione, in quei balzi vellutati di prospettiva che marchiano a fuoco il nostro malandato cuore di spettatori –  a essere padre, madre e nessuno dei due, figura generosa, risolutrice, pulita in mezzo al degrado.

Attraversa mille mappe senza strade segnalate, e noi con lui: ecco il vecchio padre quasi cieco, che vede solo un'ombra (e davvero Angel è un film tragico, greco, nel senso della sensibilità tragica, là dove il silenzio o il grido sono infine le uniche voci possibili del dolore, come concludeva Jean-Luc Nancy ne L'Intrus). Dice il padre: "sono spacciato", ma non facciamo in tempo a commuoverci che rivela il suo passato non limpido – i parenti che accolgono i doni con un'allegria esplosiva, e questa, dopo 30 minuti, inizia a suonare fasulla.

C'è, per esempio, un ballo euforico di  Mujeron con il fratello, in un istante che sembra genuinamente felice, continua a sembrarmi così – ma dietro alla gaiezza, alla retorica della famiglia latina povera ma chiassosa e ciarliera, ruggisce l'insanabile contraddizione, come un presentimento di violenza. In una sequenza di verità quasi insopportabile, Ángel scopre che il denaro che ha inviato in Ecuador per anni, perchè fosse costruita una casa in grado di accoglierlo al suo ritorno, è stato utilizzato forse per altri scopi – forse non è bastato. Ángel non recrimina, non condanna. Ha un momento di rabbia, ma infine può solo affermare la realtà della sua fedeltà, e stavolta anche la propria solitudine senza fondo.

ANGEL (2011) di Sebastiano d'Ayala Valva Resta il contrasto tra il corpo muscoloso, grande, di Mujeron-Ángel e la qualità davvero angelica del suo modo di interagire con tutto ciò che lo circonda, del suo accorgersi di tutto: dalle minacce sproporzionate ai ragazzini che lo deridono al suo aggirarsi come una figura riparatrice – ma non salvifica, anzi sempre sospesa in uno stato di impotenza, sempre un passo indietro nonostante lo scatto in avanti, che cerca di mettere una pezza qua e là nella trama malandata di un paese che non si prende cura nemmeno dei suoi bambini.

Tra un lavoro di riparazione, un saluto ai vicini, la visita alla palestra dove boxava, le parole sagge rivolte a un fratellastro, un coltello strappato di mano a un piccolissimo che può farsi male, per i suoi familiari, quasi protettori avidi, resta il dubbio, forse è diventato un sacco di Natale con le strenne, sufficienti appena all'illusione di aver fabbricato l'amore. Per loro è un obolo dovuto, forse la punizione per essere ciò che è.
D'ora in avanti, Ángel è un essere umano che deve pensare anche a sè. Forse prima o poi si scrollerà dalle spalle una piccola parte dell'intera volta celeste. In tanto dolore, Angel è una visione che scalda letteralmente l'anima, piena di umorismo, traboccante di speranza.

 

Angel, già presentato al 26° Torino GLBT Film Festival, vincitore del premio “Marcella Di Folco” assegnato da Divergenti 2011 al miglior film contro la discriminazione, sarà in concorso al 25° San Francisco International LGBT Film Festival.
In Italia l'occasione per vederlo è la proiezione romana al Nuovo Cinema Aquila martedì 7 giugno 2011 alle ore 20.00.

Angel, di Sebastiano d'Ayala Valva – due estratti

 

 

Altri due estratti sono visibili qui e qui

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