(doc) “¿Requiem for Detroit?”, di Julien Temple

requiem for detroit
Temple, come già in Oil City Confidential, mostra il mondo alla fine dell’industria. Ed è come sopravvivere dopo l’apocalisse. Ma c’è qualcosa che resta, che lega ancora il passato al futuro. Una scia residuale di musiche e immagini che si riflettono sulle macerie, restituendo loro un senso, al pari dei dipinti patchwork di Tyree Guyton, capaci di far rivivere un’intera strada a partire dalla fine, dalla morte delle cose
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Quando un fuoco brucia, quel che resta è cenere diceva Vienna/Joan Crawford in Johnny Guitar. Voglio lasciare solo cenere bianchissima, replicava Rocky Joe…
Julien Temple abbandona la sua amata, dannata Inghilterra, per volare nel cuore spento degli States, in quella città (del) motore che non batte più, perché ha bruciato e fuso, più o meno colpevolmente, i suoi pistons, i suoi sogni d’argilla e i suoi fragili meccanismi di funzionamento. Il cantore del punk rock cambia per un istante genere, componendo la partitura heavy metal di una metropoli meccanica e finta, percorsa da un ritmo diseguale, ma incessante, di grida, tonfi e tragedie sociali e personali. Temple percorre Detroit e ne racconta un secolo di storia, grazie anche ai ricordi e alla riflessioni di alcuni dei protagonisti della città: l’attivista Grace Lee Boggs, il poeta beat John Sinclair, Martha Reeves (and the Vandellas), il direttore della General Motors, e poi artisti, musicisti, architetti, personaggi strambi, giovani ‘esploratori urbani’, gente della strada. E nell’evoluzione/involuzione, nei cambiamenti drastici del tessuto urbano e sociale della Motor Town si riflette, nell’essenza, la parabola stessa di una Nazione, ancorata a doppio filo con lo sviluppo e la crisi del capitalismo. Detroit ha visto tutto. La rivoluzione fordiana della catena di montaggio e dell’innalzamento dei salari, funzionali a un aumento dei consumi e quindi a un incentivo del mercato automobilistico, le politiche della General Motors, ancor più marcatamente consapevole nel puntare sui desideri dei consumatori. E poi l’immigrazione dal sud, la segregazione razziale, i riots per l’emancipazione dei neri e il successo della musica della Motown. E, infine, le grandi crisi: il ’29, gli anni ‘80 con l’invasione del crack, droga (destino) dei mercati e malattia virale che contamina le cellule sane della società. Infine l’ultima crisi economica, che ha spazzato via l’illusione fragile di una nuova primavera dell’automobile. Detroit ha visto tutto e ora non ha più nulla. E’ una città devastata dalla disoccupazione, da povertà e analfabetismo, dalla criminalità senza più freni. Una metropoli abbandonata,  fatta a pezzi da mostruose highways, deserte anche nell’ora di punta. requiem for detroit'Non più auto, non più vita. Paradosso del sogno meccanico di un futuro mai scritto. Temple, come già in Oil City Confidential, mostra il mondo alla fine dell’industria. Ed è come sopravvivere dopo l’apocalisse. Ma c’è qualcosa che resta, che lega ancora il passato al futuro. Una scia residuale di musiche e immagini che si riflettono sulle macerie, restituendo loro un senso, al pari dei dipinti patchwork di Tyree Guyton, capaci di far rivivere un’intera strada a partire dalla fine, dalla morte delle cose. Temple attraversa Detroit e la ridevasta una seconda o una terza volta, con il suo montaggio lunare e ‘alieno’, con l’esplosione del suo proteiforme collage di pezzi d’immaginario, di icone e ritmi, di volti e oggetti e rumori dissonanti, che sembrano fare da discanto al rhythm & blues delle Supremes e delle Marvelettes o al pop incazzato di Eminem, l’Eight Mile che spacca in due il cuore bianco e nero della città. Ma questo è il caos delle origini. Perché il cinema di Temple è, ancora, un ricucire, un ricomporre i frammenti in qualcos’altro, in qualcosa di terribile e magnifico come la vita e la Storia, spietati nel loro fluire essenzialmente amorale, eppur sempre generosi di speranza. In Requiem for Detroit? è il punto interrogativo ciò che conta sopra ogni altra cosa. Proprio ciò che molti dimenticano. Perché al termine del magnifico e lacerante racconto di Julien Temple rimane sì l’impressione di un’elegia, di una cerimonia funebre. Ma anche l’idea di un post che assomiglia a un pre, a nuovo inizio. Il cuore profondo della città ha ancora la capacità di reinventarsi, magari guardando indietro, eppur sempre correndo avanti, verso altri scenari. La città della nuova agricoltura urbana? Forse. Ma di certo, una città che resiste, come il sogno di una nazione.

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