Dogborn, di Isabella Carbonell

L’esordio della registal mette in scena la difficile sopravvivenza di due gemelli siriani in Svezia, esitando forse un po’ troppo a mettere alla prova lo spettatore. Settimana della Critica.

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I due gemelli protagonisti di Dogborn, letteralmente “nati da un cane”, si svegliano di soprassalto nel loro giaciglio improvvisato fatto di giornali. Un operaio vuole scacciarli dal prefabbricato nel quale hanno trovato riparo. Mentre il fratello sgattaiola via, la sorella non riesce in alcun modo a convincerlo almeno a farle recuperare le scarpe. Quando esce sotto il cielo bianco della Svezia, suo fratello è in piedi, scalzo, in mezzo alla strada. Guarda in silenzio, come è rimasto da quando è arrivato in Svezia fuggendo dalla Siria, la neve. Cedendo ai brividi di freddo, sua sorella si toglie gli scarponi e glieli porge.

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Alla fine di questa giornata cominciata malissimo, però, il tempo degli stenti sembrerebbe essere finito. La pressione sul contatto che fornisce loro lavoretti al limite della legalità dà i suoi frutti. In un bar dall’aspetto poco raccomandabile, un uomo distinto offre loro di entrare nello staff del suo country club, oltre che un alloggio in uno dei suoi appartamenti sfitti. Quello che inizialmente sembra un gran colpo di fortuna, però, si ribalta in incubo, quando scoprono di essersi invischiati in una tratta di prostituzione. Non dovranno badare a dei cavalli, ma portare le donne a casa dei clienti.

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È in questo momento che si accende il conflitto morale di Dogborn, motore del primo lungometraggio di Isabella Carbonell presentato nella sezione SIC del 79˚ Festival di Venezia. Tutti e due i gemelli sono a disagio con questo nuovo compito, ma le reazioni al “vi ci abituerete” con il quale cercano di ammansirli sono profondamente diverse. Per lui è una repulsione anzitutto etica che diviene presto malessere fisico. Per lei è un’imposizione tanto oscena quanto necessaria per provvedere a suo fratello. Proprio nel momento in cui è disposta ad abbassarsi tanto per salvaguardare il legame di fratellanza che la lega a lui, è questo si incrina.

La separazione che ne consegue, così, rompe i soliti confini della compassione, dove questa rischiava di soffocare. Ciò che ne nasce è un’empatia più grande, che abbraccia tutti i dannati-della-Terra come lo sguardo tenero di Carbonell (la cui essenzialità al neon riporta la memoria al primo Refn) fa con i suoi protagonisti. Dogborn è una chiamata alla lotta comune perché diventi possibile costruire un futuro che non li costringa a rinunciare a sé stessi. Il film sembra così suggerire come le armi della solidarietà siano affilate solo quando questo sentimento viene perseguito senza mai arretrare, senza mai escludere. Questo radicalismo, però, si concretizza solamente in parte nell’immagine, rendendo forse troppo facile la scelta di parteggiare per i protagonisti, alleggerendo di gran lunga la sfida dello spettatore. Quando allora si sostituirà all’immacolato l’individuo più immorale, siamo sicuri che la scelta sia così semplice?

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3
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Il voto dei lettori
1.5 (2 voti)
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