Dogman (extended version), di Matteo Garrone

Un cinema che s’infiamma, che mai come stavolta si è avvicinato alla malinconia del polar. Con un finale travolgente. Non solo il miglior film del regista, ma un’inattesa conquista.

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Il fondo marino. Quasi uno schermo, un vetro dalla realtà, dove si immergono Marcello con la figlia. Come quello di Luciano con l’ossessione del reality show in Reality o tracce della dimensione fantasy di Il racconto dei racconti. Perché in Dogman, la storia realmente accaduta di Pietro De Negri, soprannominato il ‘Canaro della Magliana” che il 15 febbraio del 1988 aveva torturato e ucciso un pugile di cui era spesso vittima, conta solo come spunto narrativo. Garrone immerge dentro una dimensione alienata. L’insegna accesa del salone di toelettatura per cani diventa immagine ricorrente. Insieme rifugio e trappola, punto nodale di un paesaggio di una periferia sospesa tra natura e degrado. Qui lavora Marcello (Marcello Fonte) che vorrebbe una vita tranquilla. Stravede per la figlia Sofia ma ha un rapporto di dipendenza con Simoncino (Edoardo Pesce), un ex-pugile prepotente che terrorizza tutto il quartiere. Non sa dirgli mai di no. Però, dopo l’ennesima sopraffazione decide però di vendicarsi.

Marcello porta con sé delle tracce di Pinocchio, il progetto a cui stava lavorando Garrone prima di girare Dogman e che arriverà sullo schermo l’anno successivo. Ma in lui sembrano convivere, oltre a Luciano di Reality, anche i ‘sogni e i bisogni’ di Peppino in L’imbalsamatore, mentre il paesaggio impermeabile richiama Gomorra con i grigi inquietanti del giorno e l’oscurità della notte della fotografia di Nikolaj Bruel, alla prima collaborazione cinematografica con il regista. Ma Dogman si alimenta anche nel fuori-campo: i rumori delle auto della polizia nella scena dell’arresto e soprattutto quello della moto nuova rosso fiammante di Simoncino che rimbomba per tutto il quartiere.

Non conta solo la cronaca, si sottolineava. Dogman ha dentro una sua malata dipendenza, che contagia a livello sensoriale prima che visivo. Erano le stesse pulsioni presenti in Primo amore, ma qui c’è tutta un’altra potenza. In un cinema meno chirurgico ma più autenticamente disperato e devastante. Con la macchina da presa che sta addosso ai volti e non sembra lasciare margini. Neanche quelli di un desiderio di fuga. Un viaggio con la figlia in paesi lontani. Per poco. Magari per sempre.

Dogman s’infiamma. In quel suo realismo astratto, in una carica dove stavolta il cinema di Garrone ha pienamente contagiato e trascinato dentro. Perchè tutto il rapporto di carnefice/vittima si avverte anche nella gestualità, negli sguardi (il modo in cui Simoncino porta Marcello, titubante, a fare la rapina), negli scatti d’ira incontrollati (l’ex-pugile che sfascia il flipper). Filmare la paura con questa irruenza (e l’apertura con il cane è già indicativa) è qualcosa che oltrepassa i generi, le forme, i ‘racconti dei racconti’. Mai come questa volta il cinema di Garrone si è avvicinato a quella malinconia dei polar. Con le strade piene di pozzanghere, dove c’è quasi sempre la pioggia. Dove la vendetta non sembra essere costruita da calcoli narrativi ma arriva proprio come istinto dell’animo umano, in un cinema stavolta davvero immediato. La vita è sotto il livello del mare. Le voci sono lontane. sempre meno presenti. Come l’eco della partita di calcetto. Che può diventare visione. In un finale travolgente, quasi felliniano, che ti lascia tutti i suoi segni addosso. Non è solo il suo miglior film. Ma un’inattesa, rabbiosa, conquista. In un cinema davvero affamato, con la bava alla bocca.

 

Premio come miglior attore a Marcello Fonte al 71° Festival di Cannes

 

Regia: Matteo Garrone
Interpreti: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli, Alida Baldari Calabria, Gianluca Gobbi
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 120′
Origine: Italia 2018

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
2 (1 voto)
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