Dolci inganni, di Alberto Lattuada

Un’ intensa educazione sentimentale influenzata dal cinema esistenzialista di Bergman e dalla Nouvelle Vague. All’epoca il film venne sequestrato.

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Francesca e il desiderio. Desiderio di entrare rapidamente nel mondo dei grandi, desiderio di esplorare la propria sessualità fuori dalle convenzioni e dalle repressioni. Dolci inganni è una intensa educazione sentimentale influenzata dal cinema esistenzialista di Bergman e dalla Nouvelle Vague.

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Francesca (Catherine Spaak quindicenne al suo debutto cinematografico) è una ragazza dell’alta borghesia romana innamorata del maturo architetto Enrico (Christian Marquand) ma affascinata dal gigolò Renato (Jean Sorel) e in adorazione del fratello Eddy (Oliviero Prunas): in sole ventiquattro ore compirà tra Roma e l’area dei Castelli un percorso importante di consapevolezza della propria femminilità. Sin dall’incipit Lattuada mostra una particolare abilità nel ritrarre le contraddizioni della adolescenza: distesa sul letto e in preda all’agitazione per un sogno erotico la lolita Francesca è avvolta da conflitti tardo romantici. Il fratello Eddy entra nella sua stanza con la radiolina che spara jazz a tutto volume; Francesca si alza, si avvicina alla finestra in una posa che ricorda la Muchacha en la ventana di Salvador Dalì. Può solo essere spettatrice dello spettacolo della vita quotidiana e tra sé e sé sta meditando i versi di Leopardi e della sua Vita solitaria (“era quel dolce e irrevocabil tempo allor che s’apre al guardo giovanil questa infelice scena del mondo…” ).

Lattuada fa un passo avanti rispetto alla ingenuità della sua Guendalina (1957) e inquadra senza morbosità i turbamenti di una età compressa tra slanci repentini e improvvise timidezze. In scena c’è quasi sempre Francesca, pedinata incessantemente da mattina a sera: prima nell’attico dell’architetto dove la splendida vista su Piazza Venezia contrasta con la morte del fedele cane, poi a scuola dove tra compagne (si riconoscono Marilù Tolo e Donatella Raffai) si spettegola sul biglietto d’amore lesbico, poi ancora nell’atelier della contessa dove le modelle sembrano prostitute, infine nella grande villa dei quartieri alti di Vigna Clara dove, dopo una discussione su Leopardi, Francesca spia l’amplesso tra il gigolò e la principessa (Antonella Erspamer). Nell’attraversare a piedi le strade di Roma o nelle folli corse in macchina da gioventù bruciata, le note jazz di Piccioni sottolineano la fame di vita di una diciassettenne che si lascia attraversare dal vento e dalle forti sensazioni (“Ogni volta che parlo d’amore mi viene fame.”).

A queste sessioni spesso palpitanti, Lattuada alterna momenti più meditativi spesso in piano sequenza: Francesca al bar indecisa se telefonare a Enrico mentre scorrono le note di Arrivederci di Umberto Bindi, la parentesi al lago di Nemi dove fratello e sorella prendono coscienza della loro diversità, l’arrivo al castello di Marino e il momento della perdita della verginità rappresentato con una sapiente ellissi. In cornice numerosi influssi letterari come la Lolita di Nabokov e la scrittura decadente di Moravia (La noia è del 1960); riflessi cinematografici che spaziano tra il Vadim di Piace a troppi e il Bergman di Monica e il desiderio; frammenti di contemporaneità con l’influenza del rapporto Kinsey sull’Italietta bigotta degli anni ’60.

Il bianco e nero di Gàbor Pogàny è perfetto nell’esplorare la vita interiore di una adolescente inquieta che continua a cercarsi negli specchi senza trovare l’immagine giusta e che, nel rapporto con l’architetto (di vent’anni più anziano), richiama la figura di Francesca (Jacqueline Sassard) in Nata di marzo (1958) di Pietrangeli.

Nonostante il tocco leggero e mai voyeuristico, il film venne sequestrato e censurato (ma poi dopo qualche anno tornò nella versione originale) perché era impensabile per quei tempi che una giovane perdesse la verginità e non provasse alcun pentimento. Al contrario è proprio dopo il sesso che Francesca si rende conto della caducità del suo sentimento: quello sguardo finale in macchina è lontano dal fermo immagine di Antoine Doinel ne I 400 colpi ed è molto più vicino alla posa della bergmaniana Monica. È un misto di ironia e rassegnazione, di attonito stupore: è lo sguardo di chi è salito in cielo e non ci ha trovato niente.

Regia: Alberto Lattuada
Interpreti: Catherine Spaak, Christian Marquand, Jean Sorel, Milly, Oliviero Prunas
Durata: 95′
Origine: Italia/Francia 1960
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.71 (7 voti)
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