Don’t stop looking! – "Molto forte, incredibilmente vicino", di Stephen Daldry

Rimanendo tutto sommato fedele allo spirito del romanzo di Foer, Stephen Daldry firma la sua opera più riuscita. Perché reagire al trauma dell’11 settembre attraverso lo sguardo di un bambino può significare anche reagire al crollo del valore testimoniale dell’immagine odierna. Il piccolo Oskar scrive e compone il suo diario di viaggio illustrato, astrae e monta pezzi di reale e immaginario, fa cinema “molto forte, incredibilmente vicino” dove ogni storia può essere riscritta e il suo papà tornare in vita, scalare torri e ricordi, come un infinito (be kind) rewind

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Molto forte, incredibilmente vicino

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Non ci si può difendere dalla tristezza senza difendersi dalla felicità” – Jonathan Safran Foer

Il timore, indubbiamente, c’era. Il timore che quella infantile complessità che erompe costantemente dalle pagine di Jonathan Safran Foer potesse essere eccessivamente semplificata, soffocata, schematizzata dallo sguardo solitamente oleografico e distante del cinema di Stephen Daldry. Extremely Loud & Incredibly Close è la storia del piccolo Oskar Shell che ha perso il padre l’11 settembre (“il giorno più brutto”) e dei suoi tentativi di trovare un senso a quell’assurda tragedia, intraprendendo un viaggio che faccia luce sul mistero di una chiave. Una chiave e un nome, “Black”, lasciati dal genitore in un vaso blu: tracce di vita terrena che possono tenerlo incredibilmente vicino al cuore. Il bel romanzo di Foer si immerge totalmente nel mondo di Oskar, (s)forzandosi costantemente di evadere dalle pagine in un’anarchica contaminazione con stilemi cinematografici (montaggio di parole, immagini e colori) che tendano verso la costruzione di un lettore/spettatore. Il film di Daldry invece, per ovvie esigenze di trasposizione o per limiti dello stesso regista, castra abbastanza presto questa ipertrofia immaginifica depotenziano molti personaggi e vie di fuga tracciate dal giovane scrittore. Ma per fortuna – anche grazie al solito robusto apporto dello sceneggiatore Eric Roth e alle splendide musiche di Alexandre Despat – riesce a orchestrare comunque una convincente costruzione narrativa che pone urgenti quesiti al cinema.

max von sydowQuesto è un film che parla essenzialmente di come si possa ancora raccontare una storia dopo l’epocale tragedia – quesito dagli echi Adorniani – ponendo l’accento (più del romanzo) sull’11 settembre come vero spartiacque della nostra epoca: l’uomo che cade sui titoli di testa con tutta la sua carica luttuosa e iconica; la paura che mangia l’anima nelle strade e nelle metropolitane intasate; il movimento fine a se stesso che torna ad essere unica Frontiera come nel magnifico Reign Over Me. Quelle immagini di una New York evirata che abbiamo visto e rivisto in Tv – il crollo delle torri come castrazione di ogni sogno/immaginario occidentale – rivivono nello sguardo di un bambino probabilmente affetto dalla sindrome di Asperger e nella paziente costruzione del suo quaderno di viaggio. Pagine dove la storia può essere riscritta e il suo amato papà tornare su, scalare torri e ricordi, come in un infinito (be kind) rewind cinematografico. Ecco che il Primo Piano muto del risorto nonno Max Von Sydow si staglia come il vero “panorama” del film, schiudendo voragini di significanza dietro l’immagine: dal volto bergmaniano del bene agli esorcismi friedkiniani sul male, un’eredità novecentesca “sicura” e protettiva consegnata con sublime leggerezza dall’attore svedese alla regia di Stephen Daldry. Regia che, per fortuna, non deve far altro che inquadrare il fantasma Von Sydow: l’unico vero artist(a) muto della stagione.

E allora: reagire in questo modo al trauma 11 settembre può significare anche reagire al crollo del valore testimoniale dell’immagine. A una diretta Tv della Storia che non può minimamente restituire la complessità dell’evento: è solo il cinema, proiettato (d)agli occhi di un bambino, che può tentare ancora l’impresa. Oskar si rifugia sotto il letto nel giorno più brutto, chiude gli occhi e volta le spalle. Non vuole più guardare. Solo dopo aver trovato “chiave” e “indizi” di una storia (don’t stop looking! sottolineato in un vecchio ritaglio di giornale) ci trascinerà nel suo road movie metropolitano alla ricerca di tutti i Black di New York. Un movimento che tenta di bloccare il tempo del defunto padre nelle persone vive che incontra, fotografandole con la vecchia macchina analogica del nonno per cercare una risposta al suo orrore. È un tentativo di ridare “peso” alle immagini, di ri-scoprire un supporto (il fotogramma) e un rapporto (con l’umanità inquadrata) che possa ancora testimoniare la Storia attraverso l’esperienza. E l’Oskar del film, in fondo, fa esattamente questo: scrive e compone il suo diario di bordo illustrato, astrae e monta pezzi di reale e immaginario, fa cinema molto forte, incredibilmente vicino e nel frattempo cresce come uomo. Perché se l’11 settembre ci ha tatuato l’anima con la paranoia, se le guerre “giuste” ci hanno pericolosamente assuefatto all’immagine dell’orrore, se la crisi economica ci sta trasformando in serializzati agnelli sacrificali di un kafkiano reale incancrenito…allora l’unica speranza di ritrovare la nostra chiave è affidarci ancora allo sguardo di un bambino. Don’t stop looking!. Oltre ogni paura, ogni crollo e ogni morte per tornare a dire o ardire di nuovo: ”non ci si può difendere dalla tristezza senza difendersi dalla felicità”. Semplicemente.

 

Regia: Stephen Daldry

Titolo originale: Extremely Loud and Incredibly Close

Interpreti: Tom Hanks, Thomas Horn, Sandra Bullock, Zoe Caldwell, Dennis Hearn, Paul Klementowicz, John Goodman, Max Von Sydow

Origine: Usa, 2012

Distribuzione: Warner Bros Pictures Italia

Durata: 129’

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